- Secondo il portale che registra tutti i flussi di cassa della Pa (Siope), nel 2019 i diversi ministeri e la presidenza del Consiglio hanno speso, in linea con gli anni precedenti, quasi 160 milioni di euro in consulenze o servizi simili.
- Insomma, il settore pubblico fa ampio ricorso al privato per garantire una buona qualità dei servizi offerti ai cittadini.
- Molti dei problemi appena menzionati sono risolvibili mettendo sul piatto progetti di riforma seri che garantiscano maggiore meritocrazia nella Pa.
Negli ultimi giorni si è molto discusso dell’assegnazione di un contratto per un valore di 25mila euro a una grossa società di consulenza che supporterà il ministero dell’Economia nell’elaborazione del Pnrr italiano. In molti hanno criticato questa scelta ma, se vogliamo dire la verità, osservando i dati, sembra evidente come questo episodio rientri perfettamente in una prassi consolidata da parte delle pubbliche amministrazioni e, anzi, l’entità del contratto “dello scandalo” sia di ben poco rilievo rispetto ad altri casi simili.
Secondo il portale che registra tutti i flussi di cassa della Pa (Siope), nel 2019 i diversi ministeri e la presidenza del Consiglio hanno speso, in linea con gli anni precedenti, quasi 160 milioni di euro in consulenze o servizi simili, pari a circa il 2,5 per cento del totale degli stipendi erogati dalle medesime istituzioni. Di questi, quasi 90 milioni sono stati spesi in consulenze informatiche, 12 in consulenze tecnico-scientifiche e 2 in consulenze giuridico-amministrative. Ulteriori 52 milioni sono stati imputati alla categoria residuale “altre consulenze”. La distribuzione della spesa tra i vari ministeri dipende prevalentemente dal budget a disposizione delle singole amministrazioni. Il 71 per cento (111 milioni) della spesa ricade sul ministero dell’Economia e delle Finanze, segue con 15 milioni la presidenza del Consiglio (che include anche i ministeri senza portafoglio) e con poco più di 7 milioni il ministero dell’Istruzione. La maggior parte di queste consulenze (circa l’80 per cento) fanno riferimento a grandi società (come, appunto, McKinsey), che controllano notoriamente una fetta preponderante del mercato.
Anche gli enti locali fanno costante utilizzo di consulenze esterne per garantire una corretta gestione dei servizi pubblici. Nel 2019, comuni e province hanno speso circa 200 milioni di euro in servizi assimilabili a consulenze. La spesa supera il miliardo di euro se consideriamo anche le prestazioni professionali e specialistiche, che, come le consulenze, sono erogate da soggetti esterni all’amministrazione pubblica, ma si riferiscono a un’attività specifica e non alla realizzazione di valutazioni soggettive o pareri.
Queste cifre si riferiscono unicamente al perimetro della Pa, ma il ricorso alle consulenze è ampiamente sdoganato anche tra le società controllate pubbliche (Cdp, Invitalia eccetera), responsabili dell’erogazione di servizi pubblici essenziali. Il Foglio ha per esempio sottolineato come il Pnrr sia stato in parte redatto grazie al contributo di Cassa Depositi e Prestiti, la quale ha affidato a sua volta una parte consistente del lavoro a una società di consulenza.
Insomma, il settore pubblico fa ampio ricorso al privato per garantire una buona qualità dei servizi offerti ai cittadini. Le ragioni del sempre maggiore ricorso a questi tipi di servizi non sono ancora state identificate in maniera organica dalla letteratura economica, ma è senz’altro possibile evidenziare alcune lacune alla radice della questione. In primo luogo, abbiamo già in passato sottolineato l’inadeguatezza del numero di dipendenti pubblici e la carenza di competenze della Pa. La prevalenza di consulenze in ambito informatico e tecnico-scientifico non è che uno dei tanti segnali a supporto del fatto che nella pubblica amministrazione manchino alcuni profili professionali specifici. Inoltre i contratti di consulenza sono più flessibili rispetto all’assunzione di dipendenti e pertanto permettono alla pubblica amministrazione di coprire esigenze temporanee (l’elaborazione di un piano straordinario di investimenti ad esempio).
Il ricorso a consulenti può anche svolgere un ruolo chiave nei processi di innovazione. Il coinvolgimento nei processi amministrativi di attori privati più vicini alla frontiera della conoscenza, può consentire di avere degli effetti positivi anche sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche. Le grosse società di consulenza hanno spesso una comprovata esperienza pregressa nella realizzazione di progetti strategici che è riconosciuta a livello internazionale. Anche il settore privato fa ampio ricorso a queste società in quanto lo stesso mercato riconosce loro la capacità di aggiungere valore e competenza.
Un’ulteriore ragione che potrebbe spingere i manager pubblici a rivolgersi a consulenti è la nota mancanza di incentivi per i dipendenti pubblici. Le amministrazioni sono raramente in grado di garantire promozioni, incentivi economici o penalizzazioni per i lavori svolti dai dipendenti. Per questa ragione potrebbe essere molto complesso gestire internamente progetti che travalicano i confini delle mansioni normalmente previste dai contratti di lavoro.
Molti dei problemi appena menzionati sono risolvibili mettendo sul piatto progetti di riforma seri che garantiscano maggiore meritocrazia nella Pa. Nel frattempo però, queste mancanze giustificano ampiamente il ricorso all’esternalizzazione di mansioni altrimenti non gestibili dal pubblico. È doveroso comunque sottolineare che i budget per consulenze nella pubblica amministrazione sono anche uno strumento di potere e sono stati in passato oggetto di abusi. L’assegnazione di questi budget avviene spesso ad inizio anno fiscale e le dotazioni possono essere unicamente utilizzate per servizi di consulenza. Per questo motivo i dirigenti pubblici sono incentivati ad utilizzare queste risorse a prescindere dall’effettiva necessità.
Per tutte queste ragioni, la polemica di questi giorni ci sembra completamente decontestualizzata. Il fenomeno delle consulenze nel settore pubblico meriterà senza dubbio maggiore attenzione anche della letteratura accademica nei prossimi anni per comprendere esattamente quali siano gli incentivi e gli impatti in termini di efficienza dei servizi pubblici che possono giustificare l’utilizzo cosi trasversale di questi strumenti. Sarebbe senz’altro superficiale archiviare la questione seguendo un semplicistico paradigma per cui le politiche pubbliche sono decise dalla politica e applicate dai burocrati dei ministeri. Come notato da Alesina e Tabellini il confine tra tecnica e politica è spesso molto sottile ed è molto semplice immaginare come mansioni prettamente tecniche possano effettivamente avere dei risvolti puramente politici. L’unico vero modo per ridurre al massimo questa ambiguità è la chiarezza degli obiettivi da perseguire. La sensazione è che l’origine di polemiche spesso sterili e strumentali risieda nell’incapacità del nostro paese di dare degli obiettivi politici chiari. Più l’obiettivo è ambiguo, maggiore sarà la capacità di influenzare le decisioni da parte di tecnici e supporto consulenziale. Ci auguriamo quindi che la prossima bozza del Pnrr possa superare la confusione dell’ultima versione pubblicata, in modo che anche il dibattito possa beneficiare di discussioni nel merito delle questioni che definiranno il futuro di questo paese evitando sterili argomentazioni prive di contenuto.
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