Ci sono retroscena sulla mancata zona rossa in Val Seriana che fanno rabbrividire. Poi c’è la scienza, ci sono i dati reali. C’è chi li sapeva e chi no. Chi doveva lanciare l’allarme e chi non l’ha fatto. Chi doveva mettere la salute davanti a tutto e chi ha girato la testa da un’altra parte.

Tra le moltissime testimonianze che ho raccolto durante la stesura del libro Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale ce n’è una, inedita, che ancora mi lascia a bocca aperta. Parliamo di una notte di fine febbraio. Il 29, un sabato. Siamo a Milano al trentacinquesimo piano di palazzo Lombardia, sede della presidenza della regione più industrializzata d’Italia.

La task force lombarda è riunita con il presidente Attilio Fontana: ci sono assessori, dirigenti e vertici della sanità regionale e scienziati. I dati che arrivano dal territorio sono allarmanti. Da più di una settimana squadre di tracciatori - coordinati dall’Unità di crisi istituita da Fontana tra il 20 e il 21 febbraio - sono al lavoro per individuare, testare e isolare tutti i contatti positivi del paziente uno di Codogno.

Tuttavia, quella che inizialmente si presenta come un’azione di contact tracing assume presto dimensioni impressionanti. Quando i tracciatori lombardi iniziano a fare test a campione (in gergo si dice randomizzare, ovvero fare test a caso) per verificare che non ci siano altri contagi al di fuori della cerchia del paziente uno (Mattia Maestri) trovano persone infette ovunque, anche tra chi non è entrato in contatto con lui. I tracciatori escono da Codogno, vanno in altri comuni. Testano condomìni interi. Scoprono da subito che il virus è uscito dalla zona rossa istituita nel lodigiano il 23 febbraio e si sta già muovendo verso Bergamo e Cremona. Trovano positivi persino in Valtellina.

Questo vuol dire che in Lombardia ci sono focolai ovunque. Mattia Maestri non è il paziente uno. Codogno non è la Wuhan italiana. Quella che si vede è solo la punta dell’iceberg. I primi dati arrivano pochi giorni dopo, il 20 febbraio, a ridosso della scoperta dei primi casi positivi all’ospedale di Alzano Lombardo (il 23 febbraio).

In regione Lombardia sono consapevoli della gravità della situazione, ma nessuno lancia l’allarme. La parola d’ordine è: no panic. Lo studio su cui stanno lavorando gli scienziati incaricati dalla regione (tra loro c’è anche il matematico della Fondazione Bruno Kessler di Trento, Stefano Merler, autore dello studio epidemiologico su una possibile diffusione del Covid-19 in Italia, alla base del cosiddetto “piano segreto” del governo contro la pandemia) si intitola: The early phase of the Covid-19 outbreak in Lombardy (La fase iniziale dell'epidemia Covid-19 in Lombardia).

Lo studio viene avviato la mattina del 21 febbraio e pubblicato il 20 marzo sul sito arXiv, un archivio per bozze definitive di articoli scientifici accessibile via internet, ma gli autori che lo firmano sono in contatto diretto con regione Lombardia, a cui comunicano i dati raccolti sul territorio e le evoluzioni in tempo reale. Giorno per giorno. 
Nel testo pubblicato si legge: «L’epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020» tant’è che nella settimana successiva a questa data «diverse città della Lombardia meridionale hanno registrato un aumento molto rapido del numero di casi rilevati, che è salito a oltre 530 campioni positivi entro il 28 febbraio e 5.830 entro l'8 marzo». Le conclusioni sono chiare: «Al momento del rilevamento del primo caso di Covid-19, l'epidemia si era già diffusa nella maggior parte dei comuni della Lombardia meridionale. Il potenziale di trasmissione di Covid-19 è molto elevato e il numero di casi critici può diventare in gran parte insostenibile per il sistema sanitario in un orizzonte di tempo molto breve. Sono necessarie strategie di contenimento aggressive per controllare la diffusione di Covid-19 ed evitare esiti catastrofici per il sistema sanitario». 

La situazione è fuori controllo. Chi maneggia i numeri lo capisce perfettamente e informa i rappresentati della politica. Informa il presidente Fontana e l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. A darmi conferma della drammaticità di quei giorni è l’epidemiologo Vittorio Demicheli, direttore sanitario dell’Ats di Milano, alla guida della task force lombarda, che mi racconta: «Io mi ricordo che a proposito del paziente uno di Codogno abbiamo tamponato degli interi condomìni e poi nel giro di 4-5 giorni da noi la dimensione era diventata tale che tra i nostri dicevamo: ma come ci mettiamo qui a fare le domande? Non riuscivamo a ricostruire i contatti, non finivi un’intervista che l’indomani ce ne sarebbero state altre 500 in più da fare. C’è stato proprio un momento in cui la velocità era quella, la stessa che vedevi negli ospedali. Andava fatto un lockdown nazionale in fretta. Cioè, la Lombardia alla fine se ne frega e infatti la zona rossa di Codogno la fa il governo, la zona arancione della Lombardia la fa Fontana insieme a Speranza». 
Mi dice proprio così: «La Lombardia alla fine se ne frega». 
 


Demicheli è un uomo di apparato, ma innanzitutto è un uomo di scienza, non a caso mi confessa: «Se mi devo fare uno scrupolo di coscienza me lo faccio, perché da quando ci è apparsa chiara la necessità di chiudere tutto a quando siamo riusciti a trasmetterla alla consapevolezza dei decisori, sono passati dei giorni preziosi, che hanno fatto la differenza. Se avessimo fatto il 29 di febbraio, quello che è stato fatto il 9 di marzo, tutti questi morti….è quella settimana lì che a me in qualche modo pesa un po’ sulla coscienza. Il lockdown richiede comunque un po’ di adesione consapevole delle persone, dopo di che c’è stato un altro tipo di scambio, che probabilmente è avvenuto, ma è avvenuto in stanze diverse da quelle in cui lavoravamo noi».

Una di queste deve essere stato proprio l’ufficio del presidente Fontana, lassù in alto, dove il 29 febbraio accade qualcosa che è doveroso raccontare. A riferirmelo è sempre Demicheli. In quei giorni gli ospedali tra Lodi e Cremona sono in grave sofferenza. Quello di Alzano Lombardo, dopo i primi casi Covid accertati il 23 febbraio, è aperto e coi pazienti ammassati l’uno sull’altro nel pronto soccorso. Nessuno lo ha svuotato, né ha fatto contact tracing come richiesto dai protocolli ufficiali. In tutta l’area circostante, nei comuni della Val Seriana, si circola liberamente. Le restrizioni regionali sono minime. Le scuole sono chiuse. Le piste da sci affollate. Eppure il virus è già ovunque in Lombardia. Chi la governa lo sa, ha in mano i dati e capisce che bisogna chiudere tutto e subito. Ma c’è un però. «Ricordo una notte, era un sabato di fine febbraio - mi racconta Demicheli - quando Fontana, che era davvero molto preoccupato, si mise a fare telefonate a raffica. Ne ricordo una che ho ascoltato anch’io, perché era in viva voce, tra Fontana e il capo degli industriali lombardi, Marco Bonometti, che ha cominciato a dire “eh ma io in questo momento rifornisco la Jaguar” una roba di questo genere. Cioè lui era ancora tutto sintonizzato sul fatto che se l’Italia si fosse fermata e altri paesi gli avessero fottuto le commesse lui avrebbe avuto un danno irreparabile».

Demicheli mi chiarisce subito che quella sera non sia Bonometti a chiamare Fontana per sondare o per fare pressione, ma sia esattamente il contrario: «In questo caso era il presidente della regione che esplorava l’applicabilità di una misura più drastica di quella che avevamo messo in atto». 

Intendiamoci, non c’è nulla di male se un presidente di regione parla al telefono con le parti sociali, per valutare l’impatto di un provvedimento necessario e urgente come la creazione di una zona rossa o addirittura la chiusura di tutto il territorio regionale. È un fatto normale. Quello che turba profondamente di tutta questa vicenda è che, alla fine, nessuna zona rossa venga mai istituita, nessuna istanza formale di regione Lombardia venga mai inviata a Roma e che le misure cosiddette “urgenti” e “più drastiche” (annacquate dal rosso all’arancione senza il blocco delle attività produttive, come deciso dal governo) vengano adottate dal premier Giuseppe Conte solo nove giorni dopo, sebbene i dati reali (e non semplici proiezioni) siano drammaticamente noti ai decisori politici soprattutto regionali già a fine febbraio.

Ecco perché oggi gridano vendetta gli strali lanciati dal leader della Lega, Matteo Salvini, contro il governo, che lui accusa di aver tenuto nascosto il “piano segreto anti pandemico” e di aver avuto «elementi allarmanti sulle conseguenze del Covid» in Italia, ma di «non averle mai condivise nemmeno coi i presidenti di regione».

Oggi a parlare sono i numeri. Freddi come il marmo delle urne cinerarie dei morti di Bergamo, oltre seimila in due mesi, portati via dai carri militari. Nel libro Il focolaio pubblichiamo per la prima volta uno studio sulla circolazione dei lavoratori in Val Seriana elaborato da Matteo Gaddi, ricercatore della fondazione Claudio Sabattini di Bologna. L’area di indagine riguarda 17 comuni della Val Seriana, compresi Alzano Lombardo e Nembro, un’area che vale 5 miliardi di fatturato annuo e dove, fino all’entrata in vigore del dpcm “Chiudi Italia” del 22 marzo - su un totale di 2.446 aziende e 6.000 attività di servizi operativi sul territorio - potevano lavorare circa 30mila addetti, di cui 20.109 lavoratori dipendenti. Nell’epicentro del focolaio pandemico, mentre la Lombardia è zona arancione, trentamila persone sono autorizzate a circolare in un’area infetta.

Dopo il 22 marzo nella zona più colpita dall'epidemia, ben 13.495 persone hanno potuto continuare a lavorare, senza contare le deroghe prefettizie. Anche l’Istat lo ha recentemente confermato: esiste un nesso tra mobilità per pendolarismo e incremento della mortalità. Tradotto: non aver chiuso le fabbriche ha contribuito alla propagazione del virus e mentre in piena fase uno tutti gli italiani, adulti e bambini, sono obbligati a rimanere a casa, in Val Seriana, ovvero laddove si muore di più, migliaia di persone sono autorizzate a spostarsi dentro e fuori dalla culla industriale della Lombardia. 
Una culla diventata una bara. 


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