L’immagine di Ilaria Salis in ceppi interroga anche il mondo della scuola: la lettera di un’insegnante che ha affrontato l’argomento in classe insieme ai suoi studenti
Forse arriva per tutti un momento in cui non sai più che cosa stai facendo, cosa vogliono da te, che ci stai a fare dietro una cattedra, che dici, che studi, di che parli, come ti vedono, cosa pensano i colleghi, cosa quei ragazzi teneri e strambi, sempre più strambi quanto più tu dai per scontato che la loro normalità dovrebbe essere un’altra, cosa i genitori, che ti apprezzano e disprezzano in un giro di whatsapp.
E quale norma dovresti seguire se nemmeno più ti senti centrata in un’istituzione che rinforza ottusamente la forma per glissare sui contenuti, anzi, che se lo stesso provi a tornarci ti costringe a ingabbiarli in tali e tante ulteriori matrioske, matrioske vuote, che alla fine nemmeno te ne accorgi, che stai anche tu disquisendo di come e da tempo non di cosa.
Ma per percepire, meno male ancora con stupito dolore, questa perdita di centro e senso, che piano piano ti fa sistemare nella comfort zone del programma (abolito solo sulla carta) evidentemente serviva una manganellata emotiva, conoscitiva, epifanica. Si tratta di metafora, purtroppo mai come oggi tocca specificarlo.
Per me la botta è arrivata grazie a Ilaria Salis, non a caso una collega. Quando ho iniziato a capire di più della sua storia (tardi, come tanti, ma non è una scusante) ho continuato a seguirla, informandomi. Lo credo perché so come ci si documenta, lo faccio da sempre, è una competenza necessaria in cui mi sento forte, perché mi hanno insegnato come procedere senza preconcetti né paura. Ho avuto buoni maestri. È il mio lavoro. Solo questo mi picco di saper fare. Perché quando capisco poi ne consegue naturalmente la necessità di spiegare. E torno centrata. Così ci ho provato.
Nelle mie classi ho ricostruito i fatti. Compresi gli aspetti meno chiari. Ci siamo documentati assieme. Ho chiesto ai ragazzi di informarsi in tutti i modi che ritenessero per poi mettere a confronto dati e opinioni. Ho fatto leggere la graphic novel di Zerocalcare, "In fondo al pozzo”, i suoi aggiornamenti. Li ho invitati ad esprimere il loro pensiero. Libero, liberissimo, purché argomentato. Anzi, libero perché criticamente argomentato. Proprio grazie alla collega Ilaria Salis ci siamo interrogati su tutto. Praticamente su tutto, non ho scelto la parola genericamente. E i ragazzi hanno fatto tante domande. Che sintetizzo.
Come si possono dimenticare le basi del diritto umano? Come, umiliare una donna fino a tanto? Perché principi sacri e condivisi non lo sono poi per nulla nella pratica? Perché un presidente di una nazione come Orban può fare che vuole a casa nostra (l’Europa non è casa nostra)? Perché nazisti di ritorno possono manifestare liberamente mentre non si può dimostrare dissenso verso un’azione fuorilegge (anche quando una legge fuorilegge la rende legale)? Perché si può alterare la ricostruzione dei fatti senza permettere agli incolpati di visionare le prove che li incriminano? Perché lo stato non paga gli avvocati degli italiani imprigionati all’estero in condizioni disumane?
Ma anche: perché una ragazza va fino in Ungheria per partecipare a una manifestazione rischiosa? Non poteva aspettarsi ciò che le è successo? E ancora, infine: perché, prof, ci parla di politica?
Ecco. Di tutte, questa è la domanda che meglio centra il pozzo e la luce possibile.
Di cos’altro dovremmo parlare? Perché i ragazzi pensano che la politica sia quel mostro disgustoso fatto di interessi privati e magagne, pregiudizi ideologici incancreniti e voglia di poltrone e botte?
Ci dimentichiamo, io per prima, di parlare di politica. Di spiegare quotidianamente ai ragazzi che tutto è politica. Che ogni scelta lo è. Che la vita stessa è un atto politico, e che la politica quando è fedele alla sua altissima essenza etimologica rappresenta esattamente ciò che Ilaria, la maestra, ci sta insegnando: avere un’opinione, strutturarla, impegnarsi per affermarla, confrontarsi. Anche se questo rappresenta un rischio, una presa di responsabilità. E che la democrazia ci proteggerà dal pericolo. Esco da scuola felice, sento che stanno riflettendo. Un pochino si attenua il capogiro.
Poi accendo la tv e i manganelli (quelli veri) massacrano il senso ritrovato di una possibile (perché condivisa) rinascita. A loro, agli studenti, toccherà affrontare di nuovo anche questi.
© Riproduzione riservata