Tra le tante modalità disponibili, l’autoformazione degli insegnanti – che comunque non è tra le più diffuse – è praticata quasi esclusivamente dai singoli individui o da piccoli gruppi. Si studia e quando è possibile ci si confronta con colleghe e colleghi, magari in maniera informale. Ugualmente poco diffusa è la formazione laboratoriale, nella quale gli insegnanti sperimentano in prima persona forme di coinvolgimento attivo. Il mercato della formazione, che grazie alla rete ha ormai assunto dimensioni abnormi, va invece in un’altra direzione, privilegiando soprattutto una fruizione passiva di webinar o lezioni asincrone, in cui, ovviamente, il confronto e il laboratorio sono inesistenti o ridotti al minimo.

È proprio in questo quadro che spiccano gli elementi di novità di Learning by deweing, una serie di laboratori di autoformazione il cui titolo scherzoso gioca con il nome di John Dewey e con il suo learning by doing, quell’imparare facendo che costituisce uno dei punti fermi del suo pensiero pedagogico. La prima edizione si è tenuta lo scorso anno, sempre a ridosso della data di nascita dello stesso Dewey, che cade il 20 ottobre. Lo scorso anno l’evento è stato organizzato dal Coordinamento valutazione educativa (Cve) di Roma, intitolato ad Aldo Visalberghi, pedagogista e partigiano.

Nato nel 2022 dall’iniziativa di otto docenti della scuola secondaria di primo e secondo grado e dell’università, il Cve si è fatto prima promotore di una proposta contenuta in un documento sottoscrivibile online, poi di altre iniziative (in)formative come i due eventi intitolati Learning by deweing.

Per valutazione educativa si intende una valutazione che descrive i processi, offre a chi apprende indicazioni di lavoro e permette all’insegnante di raccogliere informazioni utili a migliorare la propria didattica. Non si tratta di abolire i voti – come vorrebbe l’errata interpretazione più o meno ingenua, più o meno malevola, di alcuni –, ma di fornire a studentesse e studenti precisi riscontri descrittivi che consentano loro di individuare i propri punti di forza e di debolezza e di orientare il proprio operato in futuro.

Il secondo appuntamento, ospitato come il primo dal Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre ha ribadito la necessità di considerare la valutazione un mezzo e non un fine, secondo la prospettiva di Dewey richiamata dalla filosofa dell’educazione Giordana Szpunar in uno dei due interventi introduttivi volti a fornire alcuni spunti teorici. Negli ultimi anni in varie parti d’Italia – Chieti, Ivrea, Latina, Massa, Verona – si sono spontaneamente costituiti altri coordinamenti, che stavolta hanno dato un contributo essenziale all’organizzazione e alla realizzazione di Learning by deweing.

In sostanza si può dire che il secondo incontro ha avuto davvero una dimensione nazionale, sia perché la partecipazione di docenti provenienti da diverse città d’Italia è stata cospicua sia perché l’evento è stato animato dall’intento di collegare i vari coordinamenti, cioè, come si usa dire, di fare rete.

Protagonista assoluta della giornata è stata la scuola. Ma perché tante persone, circa un centinaio, hanno deciso di trascorrere un sabato, coprendo talvolta grandi distanze a proprie spese, senza nulla in cambio se non la semplice esperienza di confrontarsi con colleghe e colleghi dei vari ordini e gradi, e persino con una piccola rappresentanza studentesca? E perché per parlare proprio di valutazione?

Qui sta il terzo e maggiore elemento di novità dell’evento, quello che si può senza dubbio definire come politico. L’idea condivisa è che la valutazione sia un nodo essenziale per dare un contributo alla realizzazione di una scuola democratica.

Lo ha detto chiaramente Cristiano Corsini nel suo intervento, sulla scia della lunga tradizione del pensiero democratico sull’educazione: la scuola può riprodurre la società oppure contribuire a trasformarla. A spingere tutte quelle persone alla partecipazione a Learning by deweing è stata perciò la volontà di trasformare la scuola dal basso, ed è la stessa volontà che le muove nella didattica quotidiana. Parlare, confrontarsi, discutere proposte e soluzioni in una dialettica tutta orizzontale, priva di gerarchie, non accade spesso. E soprattutto non succede di frequente che i docenti si trovino a progettare e mettere in pratica una formazione laboratoriale.

Nei quattro laboratori in cui si è articolato l’incontro si è discusso di molte cose. Il primo, per esempio, ha fornito una sorta di microguida per chi intende avviare la valutazione educativa. Nel secondo, il più partecipato, si è parlato invece di “sostenibilità” della valutazione educativa, sia per i docenti che per gli studenti, nonché di strumenti come griglie e rubriche, in un’ottica non invasiva, affinché la valutazione educativa non si trasformi in uno strumento di controllo com’è spesso il voto. Non a caso si è parlato del registro elettronico, che sarebbe opportuno modificare radicalmente e aprire all’autovalutazione degli studenti.

Il terzo gruppo si è concentrato sul nesso tra valutazione educativa e apprendimento e quindi sui rapporti con gli studenti. Ne è scaturita, quasi giocoforza, la messa in discussione delle pratiche didattiche tradizionali, imperniate su relazioni di potere: trasformare la valutazione significa trasformare la didattica, renderla più attiva. E, al momento della restituzione del lavoro durante la riunione plenaria finale, allorché Giulia Addazi, insegnante di liceo, ha proposto di portare le pratiche didattiche della scuola primaria nella secondaria di primo e secondo grado, è partito un applauso scrosciante.

Infine, nel quarto dei laboratori – orientato a contrastare i luoghi comuni sulla valutazione educativa – si è affrontata la questione della presunta perdita di autorevolezza di una valutazione che non prevede voti in itinere. Presunta, appunto, perché ciò che si perde è soltanto un piccolo potere.

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