Un’aula di liceo sono pochi metri quadrati di mattonelle annerite, una ventina di banchi disposti su varie file, una cattedra bella grande e delle finestre per far entrare la luce del sole. Un’aula di liceo sono parole pronunciate a voce molto alta, urla, schiamazzi a volte, sotto i quali parlano sussurrando i sogni che spingeranno questi ragazzi a diventare adulti.
Sono un docente di sostegno e insegno in provincia di Bergamo. Qualche settimana fa, assieme al docente curricolare, abbiamo proposto alla classe un lavoro. Dopo aver visto un breve cortometraggio sulla pandemia, gli alunni dovevano raccontare come le loro vite erano cambiate durante quest’anno. In particolare, dovevano cercare di raccontare gli aspetti positivi del loro lockdown.
Dopo la visione del cortometraggio, la discussione stenta ad animarsi. Anche perché il cortometraggio non è un granché e, fin dal principio, risulta retorico e un po’ forzato. Pian piano, però, uno dopo l’altro i ragazzi cominciano a parlare della loro esperienza. Nico, seduto strategicamente in terza fila, ma in realtà il primo della classe, dice che quest’anno ha letto molto di più (circa quaranta libri!); altri studenti dichiarano invece di aver passato molto più tempo con le loro famiglie.
Un ragazzo alto, con gli occhiali e una bandana sulla fronte da rockstar degli anni Settanta, dice che è contento perché è potuto stare di più a contatto con la natura e insieme ai suoi animali. C’è chi si lamenta di non poter andare in palestra; mentre a due ragazzi agli ultimi banchi ciò che manca davvero è andare in discoteca. La prof di inglese, con un sorriso sulle labbra, dice a uno di questi due: «Caironi, tu in discoteca? Scusami, ma non riesco proprio a immaginarti». Allora il compagno subito chiarisce: «Caironi? Caironi è il tipo che viene in discoteca in polo o in camicia bianca e gira tutto il tempo con una bottiglia di vodka fra le mani».
Bergamo e la sua provincia, come tutti sappiamo, sono state tra le zone più colpite dalla pandemia, soprattutto nel primissimo periodo, tra il febbraio e il marzo del 2020. Nessuno di noi potrà mai dimenticare l’immagine dei camion militari che sfilano portando le salme degli uomini e delle donne uccisi da un male ancora in parte sconosciuto e da cui non sapevamo come difenderci. Bisognava aspettarselo, dunque, che la discussione prendesse un’altra piega. Eppure, nessuno di noi se lo aspettava: né i ragazzi, né i professori. A un certo punto, prende la parola un alunno alto alto, seduto nella penultima fila di banchi. È uno di quelli che di solito non interviene – infatti, non ricordo neanche il suo cognome – e però, adesso che parla, usa poche parole cariche di significato. Capelli ricci ricci, occhi neri e fissi sopra la mascherina, dice, senza alcuna intonazione: «L’anno scorso fu un attimo, neanche sapevamo bene cosa fosse questo virus ché ci ha portato via mio zio e i miei nonni». Anche lo studente a cui mancava la discoteca, sempre pronto alla battuta, questa volta rimane ad ascoltare: le parole del compagno sembrano prenderlo alla sprovvista – non ne aveva parlato a nessuno in classe? – e, di colpo, cambia espressione. Il ragazzo riccio parla del suo lutto in maniera estremamente naturale ma, mentre parla, ti guarda talmente fisso che capisci quanto gli fa male. Quando finisce, abbassa gli occhi, e il suo sguardo si perde sulle schiene dei compagni.
Dopo un breve momento di silenzio, la discussione pian piano si ravviva, come un fuoco che si stava spegnendo e che poi d’improvviso torna ad ardere alto. Il racconto di quel ragazzo si perde, fra mille altre voci, fra mille altri racconti che parlano di cose meno importanti, delle piccole rinunce che ognuno di noi ha dovuto sopportare quest’anno; fino a quando il dibattito non si estende ad altri argomenti. Poi suona la campanella e gli alunni si alzano per fare intervallo. E allora di nuovo chiacchiere, parole pronunciate a voce molto alta, qualche urlo. Schiamazzi, sotto i quali parlano sussurrando i dolori e i sogni che spingeranno questi ragazzi a diventare adulti.
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