- Si sono cuciti la bocca in segno di protesta alcuni dei feriti della rivoluzione tunisina. Da dicembre scorso stanno facendo lo sciopero della fame affinché il governo pubblichi la lungamente promessa lista ufficiale e definitiva dei martiri e dei feriti della rivoluzione del 2010-2011.
- A 10 anni dalla rivoluzione del 14 gennaio, malgrado la disillusione e la stanchezza generale, il vento della rivolta soffia ancora, traendo forza da quella che probabilmente è la più grande eredità della rivoluzione stessa: aver squarciato il muro della paura e del silenzio.
- L’Università di Pisa il 13 e 14 gennaio dedica una conferenza alla memoria dell’attivista e blogger Lina Ben Mhenni e a tutte le donne che hanno fatto la rivoluzione.
Si sono cuciti la bocca in segno di protesta alcuni dei feriti della rivoluzione tunisina. Da dicembre scorso stanno facendo lo sciopero della fame affinché il governo pubblichi la lungamente promessa lista ufficiale e definitiva dei martiri e dei feriti della rivoluzione. I loro corpi mutilati raccontano la storia degli avvenimenti di dicembre 2010-gennaio 2011 e di quanto è successo nei dieci anni a seguire.
Le loro ferite parlano della tawrat al-karāma, ovvero della rivoluzione della dignità, uno dei nomi con cui i manifestanti hanno definito quegli imponenti moti popolari che hanno portato alla fuga del dittatore Zine el Abidine Ben Ali, arrivato al potere nel 1987 in seguito a un golpe bianco, e mai più allontanatosi. Sono passati 10 anni da quando il 14 gennaio 2011 il presidente è stato costretto a dimettersi in seguito alle ingenti proteste che si sono sviluppate in tutto il paese dopo l’immolazione del venditore ambulante Muhammad Bouazizi, ma coloro che hanno messo in gioco la propria vita per questo risultato non hanno ancora avuto un riconoscimento ufficiale.
Sebbene le costanti promesse delle autorità, la lista dei martiri e dei feriti della rivoluzione ancora non è stata pubblicata ufficialmente. Eppure la sua pubblicazione rappresenta non solo l’impegno dello Stato a fornire una serie di riparazioni materiali alle vittime della rivoluzione e alle loro famiglie, ma ha anche un valore simbolico. Significa riconoscere la portata di una rivoluzione che ha stravolto la storia di un paese e di un’intera regione. La caduta del regime tunisino è infatti stata la scintilla per lo scoppio di ingenti movimenti di protesta, rivolte e rivoluzioni in tutto il mondo arabo. Per mesi la regione del Nord Africa e del Medio Oriente è stata attraversata da sommovimenti che ne hanno riscritto la storia. Quattro capi di stato sono caduti (Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia, Saleh in Yemen), sono divampate 3 guerre civili e internazionali in Siria, Yemen e Libia, sono state realizzate una serie di riforme istituzionali in una serie di contesti come il Marocco, e il jihadismo ha trovato un terreno fertile per attecchire. L’onda lunga di questa incredibile stagione politica arriva fino ai tempi presenti, nelle rivolte che hanno attraversato Algeria, Iraq, Sudan e Libano tra il 2019-2020 oltre che nelle proteste che continuano ad avere luogo nei diversi paesi del mondo arabo contro crisi economica, corruzione, mancanza di democrazia.
La mancata pubblicazione della lista dei martiri e dei feriti della rivoluzione tunisina, risultato di una crescente volontà nelle file delle élite al potere di “riconciliazione” con le forze del vecchio regime, è solo una delle tante promesse tradite della rivoluzione. Sebbene la rivoluzione tunisina sia considerata l’unica esperienza di successo dei sollevamenti del 2010-2011 in Nord Africa e Medio Oriente, a guardarla da vicino questa narrazione pienamente positiva vacilla. Certamente una serie di obiettivi importanti sul piano della transizione democratica sono stati raggiunti, quali il riconoscimento della libertà di espressione e di associazione, l’approvazione di una nuova costituzione nel 2014, la realizzazione di elezioni libere nel 2011, 2014 e 2019, la crescita dei diritti delle donne, solo per citarne alcuni. Tuttavia nella vita reale molti dei diritti assicurati dalla nuova costituzione del 2014 (dal diritto al lavoro, all’ambiente pulito, all’accesso all’acqua, alla salute…) non sono applicati, la corruzione dilaga e una grave crisi economica attanaglia il paese. La crescita del Pil è rimasta molto al di sotto delle aspettative del 3%, e a causa del covid 19 sono previsti significativi peggioramenti. Il debito pubblico è quasi raddoppiato dal 2011 al 2018, passando da poco più del 35 per cento rispetto al Pil al 70 per cento. È stato calcolato che la disoccupazione nel paese è al 15 per cento, e se ci si sofferma sulla disoccupazione giovanile, questa arriva al 35 per cento, con alte percentuali tra i laureati, che non a caso sono tra le forze più presenti nelle proteste sociali. Tale situazione contribuisce a cronicizzare la crisi politica e le migrazioni, mentre la crescita dell’estremismo violento e le dure risposte adottate per contrastarlo limitano le libertà acquisite e mettono in discussione la tenuta democratica del paese. In risposta a questa situazione, da Nord a Sud, da Est a Ovest, con un’incidenza soprattutto nelle più povere regioni dell’interno, la Tunisia è costantemente attraversata da proteste, sit-in, manifestazioni spontanee e organizzate. C’è uno stato di agitazione permanente nel paese. A 10 anni dalla rivoluzione del 14 gennaio, malgrado la disillusione e la stanchezza generale, il vento della rivolta soffia ancora, traendo forza da quella che probabilmente è la più grande eredità della rivoluzione stessa: aver squarciato il muro della paura e del silenzio.
Per decenni la dittatura aveva imbavagliato il popolo tunisino, ma con la fuga di Ben Ali i tunisini e le tunisine hanno riconquistato la forza della parola e della denuncia. Ed è proprio questa nuova consapevolezza ad esser stata il principale antidoto contro una possibile contro-rivoluzione. Anche nei momenti più drammatici – come l’uccisione dei due leader della sinistra Chokri Belaid e Mohamed Brahmi nel 2013 o l’escalation della violenza terroristica – la società civile ha saputo vigilare e garantire il proseguimento del processo di transizione, mostrando quanto gli ideali democratici e l’anelito alla libertà e ai diritti siano radicati.
Il percorso che la Tunisia ha ora davanti è irto di ostacoli e inciampi. La pandemia da covid 19 ha reso la situazione nel paese, soprattutto dal punto di vista economico – vero tallone di Achille del post rivoluzione - ancora più difficile. Tuttavia mantenere viva la memoria della rivoluzione e analizzare la strada fatta fino ad ora tra ostacoli e successi risulta particolarmente importante non solo per la Tunisia ma anche per un paese come l’Italia ad essa legata da importanti relazioni storiche, culturali, economiche. Ricordare gli avvenimenti del 2011 è ricordare l’insegnamento che i tunisini e le tunisine hanno dato al mondo: con coraggio e dignità si può spezzare una dittatura e con lungimiranza e sete di giustizia si possono affrontare le sfide più difficili della transizione. Certo sono ingredienti non sufficienti ad assicurare il successo di una rivoluzione, soprattutto laddove sussiste una profonda crisi economica, ma sono sicuramente centrali e imprescindibili.
Aspettando di osservare le ulteriori evoluzioni del percorso della Tunisia è bene fare memoria e analizzare quanto è accaduto e sta accadendo. Ed è in quest’ottica che all’università di Pisa è stato organizzato un convegno internazionale online intitolato “Ṯawrat al-karāma: memorie, percorsi e analisi a 10 anni dalla rivoluzione tunisina” che si terrà nelle giornate del 13 e del 14 gennaio in occasione del decimo anniversario della rivoluzione. Dedicato alla memoria dell’attivista e blogger Lina Ben Mhenni e a tutte le donne che hanno fatto la rivoluzione è organizzato in 4 sessioni pomeridiane, e due momenti serali di approfondimento culturale su cinema e musica post rivoluzione. Grazie alla partecipazione di studiosi e studiose tunisini e italiani il convegno intende dare un contributo allo studio della rivoluzione e del post-rivoluzione e offrire un tassello per la costruzione di una memoria mediterranea condivisa.
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