Il debutto della serie su Sky Atlantic porta in televisione la ricerca dell’identità del corpo, che per la generazione Z corrisponde a ciò che si è realmente, a dispetto di quello che vorrebbero gli altri. Per cogliere l’essenza, come una sorta di perizia del cuore delle cose stesse
- Debutta su Sky Atlantic oggi la nuova miniserie in sei puntate diretta da Luca Guadagnino. La sceneggiatura della co-produzione Italia-Usa è firmata da Guadagnino, Paolo Giordano e Francesca Manieri.
- Al centro della storia Fraser Wilson, un ragazzo dai capelli ossigenati e lo smalto multicolor che incontra sulla sua via Caitlin, adolescente di origini nigeriane che indossa un nome maschile.
- La serie invita ad appurare che c’è sempre vita, desiderio, futuro. E ci porta verso il nucleo travisato delle esperienze, quelle che il pregiudizio non coglie.
Nasce come storia di un innesto e diventa la storia di un’alleanza We Are Who We Are, la prima serie televisiva diretta da Luca Guadagnino, in onda dal 9 ottobre su Sky Atlantic.
Storia di un innesto, ovvero di un corpo estraneo, quello frenetico e sovra-desiderante di Fraser Wilson, il ragazzino dai capelli ossigenati, lo smalto multicolor e i pantaloni di felpa leopardati che all’inizio della prima delle otto puntate che scandiscono la co-produzione Italia-Usa (HBO-Sky) vediamo scalpitare al desk di un aeroporto in attesa della sua valigia dispersa.
Della sua valigia, ovvero della sua identità, anche perché i vestiti, la moda, sono una delle sue fissazioni, e forse la sua vocazione. Un quattordicenne aspirante fashion designer che legge Ocean Vuong e fatica a gestire la rabbia e che incontra sulla sua via Caitlin, abbagliante trascrizione poetica delle riflessioni sul genere di Judith Butler.
Un’adolescente di origini nigeriane, che a volte nasconde i suoi lunghi capelli sotto il berretto, indossa un nome maschile (Harper) e sogna di avere i baffi.
Wawwa è molte cose insieme ma è soprattutto un piccolo grande affresco della ricerca dell’identità oggi, qui e ora, nell’epoca della fluidità dei generi e degli orientamenti affettivi e sessuali, e della radicale messa in discussione delle tradizioni e del potere degli adulti di insegnare, mostrare la via.
Fraser (qualcuno dice: un Elio di Call me by your name rivisitato e scorretto) arriva in Italia da New York insieme alla madre e alla sua compagna per stabilirsi vicino Venezia. Il topos sembrerebbe individuato: quello dello straniero che irrompe nella comunità per rivelarne lo spirito e le tensioni. Solo che, nella comunità in cui Fraser e le due donne vanno a vivere, di fatto sono tutti stranieri: la madre di Fraser è il nuovo comandante della base militare americana di Chioggia.
E qui c’è il primo punto di originalità dello show: Wawwa porta la riflessione sul queer all’interno del massimo della normatività, ovvero nella verticalità assertiva dell’esercito.
Un luogo sui generis però, fatto di mondi (e lingue) costretti a convivere. Una storia di molti mondi, dunque, in cui effetti e conseguenze sono tutti da osservare, per nulla scontati: perché se è vero che Fraser è il no alla norma, ripetuto, urlato a colpi di salti, calci e felpe animalier, è vero anche che la base militare è di per sé un luogo sospeso, una crasi dove non mancano gli scontri, con gli americani che portano ibridazione e wilderness – senso dell’altro, della frontiera – nella piccola provincia italiana.
Wawwa è la storia di un salto, di un coro di forze sbilanciate e sbilancianti, di un tiro alla fune tra ciò che intendiamo quando diciamo noi e quando diciamo loro, gli altri. Appartenenza, solitudine, rispecchiamento: gli otto episodi della serie disegnano una cartografia del nuovo mondo tracciata attraverso la storia di un’amicizia, di un’alleanza che deve trovare la sua sintassi, e farsi strada nello sconosciuto.
La chimica
Fraser e Caitlin, due spiriti affini che si riconoscono nella loro anomalia dispersa in un punto non scelto del pianeta: lui ama la madre ma a volte, prenda del rancore, la colpisce sul viso o la prende per i capelli, sogna l’amore ma preferisce all’esplorazione del corpo la ricerca su ciò che lo ricopre – decora, personalizza; lei probabilmente non è una lei, o quantomeno coltiva il beneficio del dubbio, sogna di diventare un soldato, patisce le piccole ossessioni nostalgiche – il meteo americano, Chicago – di una madre vittima di traumi e rimozioni, e ama visceralmente un padre, militare, che presto inizierà a non tenere più il passo dei suoi desideri.
È la storia di Fraser e Caitlin/Harper ma è anche una storia corale, di piccoli amori e amicizie instabili, che riunisce molti fuochi dell’attenzione dei nostri tempi: sradicamento, nuovi nazionalismi, nuove forme di genitorialità, crisi dei padri, genealogia del trauma.
Tra videogiochi, icone letterarie e del fashion system, empowerment femminile e una colonna sonora che accosta Anna Oxa, Frank Ocean, i Ragazzi Italiani di Vero amore, Calcutta e i CCCP, la sceneggiatura – firmata da Guadagnino, Paolo Giordano e Francesca Manieri – si calibra sui dettagli e i vuoti di un racconto che sa lasciare spazio – aria, acqua, corpo – attorno alle parole dei protagonisti, lavorando a una costante ricombinazione delle immagini depositate e dei modelli: cosa è madre, cosa è figlio?
Cosa maschile, cosa femminile? Una serie che sarebbe piaciuta, mi si consenta il doppio carpiato, a Edmund Husserl, il padre della fenomenologia, che teorizzò la pratica della variazione eidetica: ovvero la tecnica, tutta mentale, di alterare i connotati di un ente o un fenomeno per coglierne l’essenza, in una specie di perizia del cuore delle cose.
Cosa rende un matrimonio tale? E un amore? E una comunità? Ecco, Wawwa fa questo, ci invita a sostituire tutti i dettagli possibili, e ad appurare poi che c’è sempre vita, desiderio, futuro. Senso. E ci porta verso il nucleo travisato delle esperienze, quelle che il pregiudizio non coglie, fissando sempre, ostinatamente, solo il dito e mai la luna.
L’adolescenza è l’età delle eruzioni plutoniche, delle annunciazioni dell’altro, degli altri, della contaminazione/confusione che si oppone ai tanti volti del sovranismo e dell’intolleranza, e che contrappone la via della dispersione a quella del contenimento.
Wawwa è un manifesto generazionale, di quella generazione Z che ci sprona a dissipare un fraintendimento: parlando di identità, non si tratta di essere ciò che si vuole – il che sarebbe mero relativismo, volontarismo – ma ciò che si è, davvero, a dispetto di ciò che gli altri vorrebbero o sono pronti ad accettare.
Esistono molte più cose – e persone – tra il cielo e la terra di quante ne contemplino i nostri sguardi pavidi e pigri, le nostre soluzioni predeterminate. Le storie dei ragazzi di Wawwa – americani, italiani, bianchi, neri, spericolati, entusiasti, depressi – sono costellate di domande e risposte ambivalenti e aprono alla possibilità che profanare le tradizioni significhi innanzitutto rivelarne il fondo pieno di alternative interscambiabili, un fondo messo a tacere dalla coltre dell’abitudine.
Il debutto di Guadagnino nella serialità insomma prende sul serio il tema dell’identità, ovvero vi si avvicina, la guarda dall’interno. E rifugge dall’ideologia, anche da quella di un certo attivismo – utile, importantissimo, sebbene inevitabilmente sempre uguale a sé stesso – preferendo restare sulla soglia, lì dove tutto è ancora più ricco e silenzioso, poggiando lo sguardo sulle contraddizioni, i ripensamenti, le ricombinazioni.
Prime volte
Come in Call Me By Your Name poi, anche nella storia di Fraser e Caitlin, ma soprattutto di Fraser, non mancano le deliranti ustioni dei primi amori: pochi sanno raccontare così bene l’età in cui l’aspirare a essere, a diventare, pulsa in sincro con il bisogno di amare, in cui i modelli, i mentori si fanno amori, veri o mancati.
Pochi sanno iniziare a farci fare il tifo per la storia d’amore tra un teenager e un trentenne. È davvero il caso di dire: il senso di Luca Guadagnino per l’adolescenza, al di là del bene e del male. E pure della legge. Wawwa è un progetto che cerca le prospettive laterali e il margine di mistero, anche parlando di inclusività.
Davanti alle storie di questi ragazzi e questi adulti tocca distruggere presunti ossimori e aut aut, arrivando ad ammettere che la contraddizione spesso non esiste, la strada non è davvero sbarrata: si tratta solo di esorcismi sociali, tic scaramantici.
Abbiamo bisogno di andar oltre i falsi problemi e le immagini inibenti: non c’è violazione della natura, c’è reazionario attaccamento al potere e a tutte quelle narrazioni stabili che del potere (e dei suoi abusi) sono i più antichi strumenti di perpetrazione.
L’identità è un cantiere a cielo aperto, un campo sperimentale e maieutico su cui forte soffia il vento del desiderio, un vento che tutto sovverte, rimette in moto, sposta, rilancia.
Guadagnino, Giordano e Manieri con questa serie si sintonizzano in profondità col nostro tempo e rilanciano, poeticamente, il discorso sul genere, incoraggiando soprattutto a fermarsi, stare a guardare, ascoltare. C’è sempre una storia nuova da raccontare. Di cui non sappiamo ancora assolutamente nulla.
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