- L’Order-Ukraine c. Russian Federation del 16 marzo, della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, rappresenta un punto fermo per le valutazioni sull’illegittimità delle azioni belliche intraprese dalla Russia in Ucraina dal 24 febbraio scorso.
- L’Ucraina è stata parte attrice del procedimento davanti alla Corte, ma non ha accusato la Russia di genocidio. Si è rifatta alle dichiarazioni pubbliche rese dal presidente Vladimir Putin e al riconoscimento unilaterale delle “Repubbliche popolari” di Donetsk e di Lugansk.
- La Corte ha deciso che non sussistono elementi per configurare un genocidio perpetrato dall’Ucraina in Donbass e che, per prevenire un genocidio, è illegittimo il ricorso unilaterale della forza. Gli stati devono ricorrere agli organi competenti delle Nazioni Unite.
Tranne qualche rarissima eccezione, gli organi di informazione hanno riportato solo generiche indicazioni sulla prima pronuncia adottata da un organo giurisdizionale internazionale sul tema attualissimo della guerra in Ucraina.
Eppure l’Order-Ukraine c. Russian Federation del 16 marzo, emesso dalla Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite (Icj), rappresenta un punto fermo per le valutazioni sull’illegittimità, sotto il profilo dei principi e delle regole del diritto internazionale, delle azioni belliche intraprese dalla Federazione Russa in Ucraina a partire dal 24 febbraio scorso.
Peraltro l’analisi del provvedimento offre un’osservazione estremamente interessante e suggestiva di un percorso giuridico che si è dipanato attraverso le complesse regole di competenza e procedurali della Corte internazionale di giustizia e di un importante trattato multilaterale, la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948.
Le competenze della Corte
Per comprendere il rilevante valore giuridico della pronuncia è opportuno un breve cenno sulla International Court of Justice, che in base al Capitolo XIV della Carta dell’Onu del 1945, all’articolo 92, è individuata come «il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite».
Lo Statuto dell’Icj, approvato insieme alla Carta a San Francisco il 26 giugno 1945, prevede che sia costituita da 15 giudici, eletti per 9 anni con un sistema di votazione che si svolge simultaneamente, ma in modo autonomo, nel Consiglio di sicurezza e nell’Assemblea generale. La Corte ha sede all’Aja, ma non va confusa con la Corte penale internazionale (International criminal court, Icc), perché non ha competenza ad accertare responsabilità penali individuali per i «crimini internazionali» di competenza dell’Icc.
La sua giurisdizione invece attiene la responsabilità degli stati, e in base all’art. 36 decide sulle controversie riguardanti: l’interpretazione di un trattato, qualsiasi questione di diritto internazionale, l’esistenza di qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe violazione di un obbligo internazionale, la natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale.
La sua competenza si declina in particolare su due canoni, quello della “giurisdizione speciale”, in forza di un accordo sottoscritto fra gli stati interessati alla controversia, e quello della “giurisdizione obbligatoria”, in base alle clausole di accettazione della giurisdizione inclusi in trattati bilaterali o multilaterali.
Le accuse di “genocidio”
L’Ucraina è stata parte attrice del procedimento di accertamento davanti alla Corte internazionale di giustizia, a seguito delle azioni di guerra intraprese nel suo territorio dalla Federazione Russa a partire dal 24 febbraio scorso, facendo riferimento all’accettazione della giurisdizione della Corte fatta dalla Russia nell’aderire alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 9 dicembre 1948.
L’Ucraina in questa fase non ha accusato la Russia di genocidio, ma si è rifatta alle dichiarazioni pubbliche rese dal presidente Vladimir Putin, nonché al contenuto dei due distinti "ordini esecutivi” sottoscritti da Putin sul riconoscimento unilaterale delle “Repubbliche popolari” di Donetsk e di Lugansk, in cui si dava fondamento giuridico a un’“operazione militare speciale” per reazione ad “atti di genocidio” perpetrati dall’Ucraina ai danni delle popolazioni di etnia e lingua russa di quei territori.
L’Ucraina ha quindi chiesto di accertare, in punto di fatto e di diritto, due significative situazioni di rilevanza giuridica: la prima, che l’Ucraina non ha compiuto atti di genocidio contro la popolazione del Donbass. La seconda, che l’uso unilaterale della forza per la repressione di atti di genocidio non è previsto tra i mezzi consentiti dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
La Russia si è rifiutata di intervenire in giudizio e ha presentato una memoria in cui ha contestato invano la competenza della Corte, e chiesto di «non indicare misure provvisorie e rimuovere questo caso dalla sua lista».
La Convenzione sul genocidio
Nel ricorso introduttivo l’Ucraina ha richiamato le previsioni della Convenzione sul genocidio del 1948, facendo riferimento agli elementi costitutivi del crimine, che, come è noto, sono fortemente caratterizzati da una rigorosa valutazione dell’elemento soggettivo dell’intenzionalità rivolta all’annientamento fisico.
Nonostante ciò, purtroppo anche in tempi recenti, gli organi della giurisdizione internazionale si sono potuti pronunciare sulla sussistenza del genocidio: la prima condanna in assoluto è stata emessa dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda nel 1998, in relazione al genocidio commesso nel 1994 nei confronti del gruppo etnico dei tutsi, poi c’è stato il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia che ha condannato Ratko Mladić e Radislav Krstić, generali dell’esercito serbo-bosniaco ritenuti colpevoli del genocidio perpetrato nel 1995, a Srebrenica, nei confronti del gruppo nazionale dei bosniaci musulmani.
In ogni caso, vale ricordare le previsioni della Convenzione, in base alle quali, all’articolo 1, per configurare il genocidio occorre «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale», attraverso uno o più dei seguenti atti: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.
Per l’articolo 3, sono quindi puniti i seguenti atti: il genocidio, l’intesa mirante a commettere genocidio; l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio; il tentativo di genocidio; la complicità nel genocidio.
Quanto alle misure che gli stati possono adottare per prevenire/reprimere il genocidio, oltre alle misure della legislazione penale, l’articolo 8 prescrive esclusivamente il ricorso agli organi competenti dell’Onu affinché siano adottate le misure previste dalla Carta delle Nazioni Unite.
Le considerazioni introduttive
Così costruito il ricorso, l’Ucraina ha avuto piena ragione delle richieste addotte. La Corte ha rinviato la decisione definitiva, ma ha confermato la sua competenza e ritenuto che vi fossero rilevanti elementi di fatto per adottare «provisional measures», una sorta di misure cautelari volte a interrompere e/o evitare l’aggravamento di situazioni, accertate non conformi al diritto, suscettibili di gravi ripercussioni, non altrimenti sanabili.
Ha quindi respinto la tesi della Federazione Russa che non vi fossero i presupposti perché la Corte esercitasse la competenza e adottasse «misure provvisorie», richiamando una serie di precedenti: in materia di applicazione della stessa Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, Gambia c. Myanmar, del 23 gennaio 2020, e in materia di applicazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale Armenia c. Azerbaigian; e Azerbaigian c. Armenia, del 7 dicembre 2021.
Sull’efficacia vincolante delle «misure provvisorie» ha quindi richiamato la pronuncia La Grand, Germany c. United States of America, sentenza Icj, un caso in cui su richiesta della Germania gli Stati Uniti sono stati ritenuti inadempienti rispetto agli obblighi della Convenzione di Vienna sul diritto dei cittadini stranieri imputati in un procedimento penale a essere informati della tutela consolare del paese d’origine.
Le conclusioni
Il massimo collegio delle Nazioni Unite ha quindi emesso l’Order-Ukraine c. Russian Federation del 16 marzo con 13 voti a favore, contrari solo il vicepresidente russo Kirill Gevorgian e il giudice cinese Xue Haqin. La Corte ha deliberato «allo stato degli atti» con due statuizioni: non sussistono elementi per configurare un genocidio perpetrato dall’Ucraina in Donbass; ai sensi della Convenzione, per prevenire un genocidio è illegittimo il ricorso unilaterale della forza, poiché gli Stati «possono ricorrere agli organi competenti delle Nazioni Unite per intraprendere le azioni previste dalla Carta delle Nazioni Unite».
Conseguentemente, la Corte ha disposto come «misure provvisorie» che la Federazione Russa: «sospenda immediatamente le operazioni militari avviate il 24 febbraio»; «provveda affinché tutte le unità armate militari o irregolari che possano essere dirette o sostenute da essa, nonché da tutte le organizzazioni e le persone che possono essere soggette al suo controllo o direzione, non prendano provvedimenti per proseguire le operazioni militari» di cui al punto precedente.
È molto probabile che anche in forza di questa determinazione l’Assemblea Generale delle Nazioni Unire torni a pronunciarsi sulla risoluzione A/ES-11/L.1 adottata il 1° marzo scorso, nella quale, a stragrande maggioranza degli stati, si era già intimato alla Federazione Russa di cessare le ostilità e aveva disposto, al paragrafo 16, di aggiornare la «sessione speciale di emergenza».
Stavolta potrebbe anche pensare a un modello più simile alla risoluzione Uniting for Peace – adottata nel 1950, quando fu superato l’immobilismo del Consiglio di sicurezza per far cessare la guerra di Corea – che imponga d’autorità un negoziato e condizioni imperative, eventualmente definite ancora dalla stessa Corte internazionale di giustizia.
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