- I social media sono “la livella” di Totò, che aveva infatti il potere di metter tutti allo stesso livello: varcata la soglia del campo santo, diventano tutti uguali. Sui social, per la politica e a volte non solo, vale lo stesso.
- Un tempo, per iniziare a fare politica, occorreva iniziare il “cursus honorum”: anni e anni sul territorio con il partito; volantinaggi, anticamere e contro-anticamere con il piccolo potere di turno. Oggi, con i social, quella fase può essere bypassata del tutto o in parte.
- I social, infatti, possono costruire una prima e ampia base del consenso che vent’anni fa si cercava sul territorio. Ma i social sono anche una trappola, un labirinto in cui si può perdere. E in cui, più che altro, si può perdere di vista l’obiettivo primario di un politico: il consenso politico sano.
Social media. Inizio a parlarne con un paragone brutale e forse per alcuni addirittura profano: i social media sono “la livella” di Totò, almeno in larga parte. La “livella” narrata dal principe Antonio de Curtis, ossia la morte, aveva infatti il potere di metter tutti allo stesso livello. Re, imperatori, operai e spazzini: varcata la soglia del campo santo, diventano tutti uguali. Sui social, per la politica e a volte non solo, vale lo stesso. O quasi, almeno.
Il motivo? Ve lo spiego con un esempio, che vale più di ogni considerazione o riflessione. Anzi: con un parallelismo tra epoche vicine ma distanti al contempo. Andiamo indietro a trent’anni fa e mettiamoci nei panni di Mario, ragazzo di vent’anni al primo anno di università e con il cruccio di una grande passione per la politica; di quelle passioni che ti impongono, biologicamente prima che moralmente, il dovere di farle, praticare; che ti impongono di aspirare, un giorno, ad entrare nel gioco democratico non come elettore, ma come eletto.
Trent’anni fa Mario, per appagare questo bisogno, ha dovuto iniziare una cosa chiamata cursus honorum: anni e anni di politica sul territorio con il partito; volantinaggi, anticamere e contro-anticamere con il piccolo potere di turno (ci sono sempre e dovunque, a prescindere dal colore politico); e poi riunioni, analisi delle sconfitte e delle vittorie; comizi singoli e collettivi; aperitivi, caffè, cene e pranzi elettorali con amici, parenti e conoscenti trascinati per far vedere al candidato, piccolo potere o ras che “si pesa” qualcosa, che si hanno voti e che si muovono persone.
La ricerca del consenso e la costruzione della rete – che in larga misura dipende dalla buona riuscita della prima attività – per anni, fino al primo traguardo: l’elezione al municipio, al comune. Il minimo sindacale in fondo concesso un po’ a tutti i Mario di questo Paese, oltre il quale solo i più bravi o c(r)apaci sono in grado di andare.
Oggi non è più così. O meglio: non è più solo così. I Mario del 2021 hanno infatti un’opportunità: possono bypassare del tutto o in parte quel cursus honorum da uno smartphone o dal pc: con i social. Perché con i social possono costruire una prima e ampia base del consenso che vent’anni fa si cercava sul territorio.
Sì, consenso. Voglio rompere questo che a volte è un tabù intellettuale: il consenso social, che per molti, specie della vecchia guardia, non esisterebbe. Ma che cos’è il consenso? Consenso significa essere d’accordo, significa avere fiducia. E se io ti parlo cento volte e tu novanta sei d’accordo con ciò che dico, inizia a svilupparsi un meccanismo di fiducia; fiducia che è alla base del consenso. Fughiamo allora ogni dubbio sul valore dell’interazione social in relazione a questo: che tu quell’essere d’accordo lo esprima con un “mi piace” su Facebook o mentre annuisci da casa guardandomi in un talk show è relativamente irrilevante, perché il meccanismo alla base è lo stesso: stai esprimendo il tuo esser d’accordo con ciò che dico o scrivo. Cambiano i tempi di solidificazione di quella fiducia, più lenti sui social e più rapidi in tv, ma l’obiettivo rimane uguale.
Lì, sui social, alla ricerca di questo rapporto fiduciario, si parte allora tutti uguali: qui sta il gioco della “livella”. Virtualmente, basta un profilo e si ha accesso a milioni di persone. E chi ha davvero idee e visione politica, e sa comunicarle in maniera efficace, costruisce più fiducia, più consenso; consenso che nel tempo può diventare consenso politico. Non serve anticamera, non servono comizi, volantinaggi o riunione: serve, di base, saper comunicare bene per costruirsi un pubblico che una volta fidelizzato potrebbe – almeno in parte – diventare consenso politico, di persone che leggendo il tuo nome e guardando il tuo volto possano dire “Il voto te lo do”. E dati i numeri spesso da capogiro che i social spesso mettono sul tavolo, non è difficile immaginarne grandezze di gran lunga superiori a quelle costruite, faticosamente, dai Mario del secolo scorso.
Ho però detto potrebbe perché il condizionale è d’obbligo. I social, in politica, sono la livella per gli aspiranti eletti del domani; sono, insindacabilmente, il turbo per quelli provenienti da generazioni precedenti ma che intendono navigarli. Ma sono anche una trappola; anzi: un labirinto in cui si può perdere. E in cui, più che altro, si può perdere di vista l’obiettivo primario di un politico: il consenso politico sano. Non consenso generale: politico. E sano. Perché il risvolto della medaglia (o della “livella”) dei social è questo: il loro innato generalismo. Si parla di tutto lì; e tutto, a chi cerca consenso, può far gola.
Cucina, sport, attualità, cronaca, musica e chi più ne ha più ne metta: Facebook, Instagram e ancora di più oggi TikTok sono macchine da like sulle opinioni e i contenuti più generali. E quando il Mario del XXI secolo inizia a navigare e lavorare bene sulla comunicazione social, incassando i primi numeri da capogiro (anche qualche centinaio di like, all’inizio), il rischio che si faccia prendere la mano e cada nel generalismo, iniziando a parlare di tutto ciò che crede possa portare like, non è alto: è quasi matematico.
Per questo occorre stare attenti. Tutti gli altri argomenti all’infuori della politica sono qui le sirene di un’Odissea digitale: andare loro incontro significa la morte politica. Perché il pubblico, quel pubblico che non ti conosce offline ma solo nella tua versione online, e che ha iniziato ad interagire con i tuoi contenuti politici, apprezzandoli e fidandosi di te per ciò che dici, comincia a percepirti come uno che parla di tutto. Uno per il quale la politica è solo un argomento, non l’argomento.
Si sbiadisce così il paradigma dell’autore, si sbiadisce persino il nome che viene così disancorato dall’argomento cardine (la politica). E inizia un limbo in cui si cresce, ma non ci si connota. Si diventa delle volgari “macchine da like”; intrattenimento per un pubblico che non ti identifica. In altri termini, la morte di un sano consenso costruito con costanza, coerenza e sincerità (altro capitolo ancora: questi ultimi due sono gli elementi che si sacrificano inseguendo i “mi piace”, e che ci trasformano in “macchine da like”).
Questo è il grande, enorme rischio della “livella”: che ti livelli troppo e ti renda uguale ad ogni altro commentatore sui social; che, anche a discapito di numeri sempre più grandi, ti anonimizzi e faccia uscire dalla politica, dalla cultura politica e vanifichi gli sforzi e l’impegno di una sana, corretta comunicazione politica. Rendendoti un personaggio d’intrattenimento disposto a tutto, e a parlare di tutto, pur di prendere “mi piace”.
Assieme a questo, ve ne sono certo poi anche altri. E vi sono anche limiti. Ma sono capitolo per altra discussione. Per adesso, il messaggio è questo: a chi intende fare politica, sappia che sui social lo spazio per costruire una sana, grande e con enormi potenzialità c’è. Ma il rischio di perdersi nel limbo è enorme.
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