La sua nuova canzone, la colonna sonora per il film di Alessandro Bardani sulle adozioni, Massimo Troisi come figura di riferimento. Il cantautore calabrese si racconta, dall’avversione per il Ponte di Messina alla paura del virtuale. «Scrivere per me è una sofferenza. La sinistra ha lo stesso problema dei cantautori: si è svilita per somigliare ad altro».
Dario Brunori, in arte Brunori sas, ha conosciuto il successo tardi, «quando avevo già messo radici», dice. La sua ultima canzone si intitola La vita com'è, prodotta da Riccardo Sinigallia, nell'ultimo album di Paolo Benvegnù canta con l'autore L'oceano. Lo incontriamo a pochi giorni dall'inizio della 74esima edizione del festival della canzone italiana.
Martedì inizia Sanremo, lo guarderà?
Certo, sempre. Mi piace guardare Sanremo, fin da piccolo eravamo abituati alle pagelle, diventava un rituale come guardare le partite della nazionale. Ancor di più adesso dove sembrano spariti i riti collettivi, mi piace guardarlo anche per criticare, sono in varie chat dove non facciamo altro che sfottere. Anche per questo non ci sono mai andato per non finire oggetto di quelle chat.
Per questo non ha mai partecipato?
(ride) Esatto, non voglio essere escluso dalla chat e neanche inibire i partecipanti.
La sua ultima canzone si intitola La vita com'è ed è la colonna sonora (premio Lucio Dalla) del film Il più bel secolo della mia vita, per la regia di Alessandro Bardani. La pellicola racconta il paradosso della legge che vieta a un figlio adottivo di conoscere i genitori biologici se non al compimento dei 100 anni. Che idea si è fatto di questa storia?
Inizialmente pensavo fosse una forzatura, una trovata di sceneggiatura, un’allegoria poi ho scoperto la veridicità della norma. È rappresentativa di una stortura all’italiana, ma mi sembra anche metaforica perché, indipendentemente dalla legge, tutti forse conoscono davvero i genitori quando si diventa adulto, a cent’anni li conosci davvero.
Che rapporto ha avuto con i suoi genitori?
Molto diretto, franco, rispettoso, tipico di una certa generazione. Mio padre lavorava e fino a una certa età lo abbiamo visto molto poco, è morto giovanissimo, a 66 anni. Mia madre è una mamma meridionale, pragmatica e simpatica, la sua ironia mi ha aiutato a non prendermi troppo sul serio. Crescendo scopri l’essere umano e non la visione idealizzata del genitore, ne vedi le fragilità, gli inciampi e le debolezze.
Il titolo della canzone ricorda una battuta di Troisi, «io la vita la prendo come viene, ma viene sempre una chiavica». La sua vita com’è?
Una delle mie figure di riferimento in questa fase quando scrivo è proprio Troisi, lo adoro, soprattutto la sua capacità di toccare i temi dell’esistenza con leggerezza, è uno dei miei preferiti. In questo periodo della mia vita mi sto sforzando di non perdere di vista le cose fondamentali, io ho avuto la fortuna di arrivare al successo quando ero già strutturato, avevo già radici. Il covid mi ha aiutato molto, la sospensione del tour all’inizio sembrava un dramma, ho capito molto presto che non c’era da preoccuparsi perché la tragedia era quella che stava colpendo il paese. Poi ho fatto delle scelte, è nata mia figlia e ora voglio mantenere quell’approccio e occuparmi delle vere priorità. Mi prendo i miei tempi.
Lei ha detto che cantare e suonare la fa gioire ed estraniare. Prova lo stesso quando scrive canzoni?
No, scrivere per me è una sofferenza, un parto. Mi rendo conto che cerco di scappare in ogni modo, ogni scusa è buona per evitare quel momento. Questa è una fase in cui evidentemente la mia vita ordinaria procede bene, forse mi spaventa percorrere quei meandri, quelli che la scrittura ti spalanca.
Che significa fare il cantautore oggi, si sente un poco fuori moda?
Quella del cantautore è una figura novecentesca, ho la fortuna di essermi sempre mosso in un limbo tra cantautorato classico e l’indie-pop, mi aiuta ad avere una certa tranquillità in contesti diversi. Prediligo contesti novecenteschi, teatri, i luoghi più piccoli, ma ho fatto anche il palasport e me la sono goduta anche lì. Penso che oggi ognuno di noi faccia i conti con un mondo totalmente cambiato, quando esce un disco il venerdì dopo alcuni giorni non se ne parla più. Sei nello stesso calderone con tutti gli altri ambiti, non c’è più critica, non c’è più la stampa specializzata, la notizia di musica viene fagocitata da quelle di attualità, ma è inevitabile.
Che ascoltava da ragazzo?
All’inizio non cantavo, ma suonavo la chitarra. Tutto quello che aveva una chitarra ed era elettrico mi piaceva, Hendrix, Led Zeppelin, e poi Pearl Jam, Metallica, il rock anni Settanta. Sugli italiani mi sono appassionato presto all’alternative rock, insospettabilmente rocchettaro nonostante la deriva da cantautore. Ascoltavo anche Lucio Battisti, il primo Vasco, fino a C’è chi dice no mi piaceva tantissimo, erano i dischi che si ascoltavano in provincia, i miti di chi viveva nelle aree interne. Conoscevo i cantautori solo per esigenze di falò estivo, poi li ho recuperati all’università.
Una delle sue canzoni più importanti è Canzone contro la paura. Da cosa è spaventato?
Mi spaventa l’illusione che si possa supplire con il virtuale all’incontro reale. Io sono un casalingo quindi la rete mi ha sempre aiutato a muovermi nelle relazioni, ma oggi sento una necessità personale degli incontri in carne e ossa perché penso che lì ci sia ancora la possibilità di alcune trasformazioni, di preservare una dimensione umana. Mi spaventa l’illusione, mi comincia a pesare il virtuale.
Le manca il ponte per andare in Sicilia o alla fine non lo faranno mai?
È una priorità per me. Sono anni che mi batto per il ponte, tutta la mia discografia è dedicata a questo, infatti, io scrivo nella misura dello stretto necessario (ride). Da calabrese non mi sembra una priorità.
Ogni tanto si parla del ritorno del fascismo, lo sente un pericolo reale?
Tendenzialmente non mi faccio influenzare dalla news del momento, tengo una distanza salvifica dal trend topic, in una settimana si parla di una cosa poi di altro. C’è da tempo una tendenza a un certo tipo di ritorno, non dico al fascismo, ma a un’idea che di fronte alla frammentazione la soluzione sia quella della chiusura, del settarismo, una tendenza che vale nei micro e nel macro. Così come nel piccolo c’è tendenza a rintanarsi, a chiudersi nelle case, nel virtuale, così nel macro ci si affida a personaggi che promettono la salvezza attraverso i blocchi, le chiusure, i muri. Oltre l’ideologia, dal punto di vista pratico questa soluzione non funziona.
La sinistra manca o siamo noi a non vederla più?
Si è cercato di trovare una formula di sinistra che fosse in grado di mantenere le istanze della sinistra e contemporaneamente di non essere tacciata di anacronismo. La sinistra ha lo stesso problema dei cantautori, se cerchi di essere contemporaneo rischi di perdere i tuoi tratti distintivi. Si è svilita volendo somigliare ad altro, questo ha portato molte persone a non riconoscersi più. Forse hanno capito che non si può parlare solo di diritti civili, ispirandosi al modello dei democratici americani, ma ci sia necessità anche di altro visto che le destre sono riuscite a raccattare istanze tipiche della sinistra. Io penso sia cambiato tutto, il centro delle questioni non passa più dalle stanze dei partiti, i luoghi delle decisioni sono altri. Per me la tecnologia estremizzata conduce a uno svilimento dell’essere umano, c’è una corrente molto più forte di tutte le ideologie classiche. Di quello dovremmo occuparci.
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