- Mario Ciancio Sanfilippo è il più emblematico uomo di potere che per più di 50 anni ha influenzato la storia di Catania, intessendo “relazioni pericolose” senza essere scalfito da nessuna indagine giudiziaria.
- Su questa figura Antonio Fisichella ha scritto un libro che squaderna davanti ai nostri occhi un “sistema paritario” tra politica, mafia, imprenditoria e informazione.
- Mai un sistema imprenditoriale è stato dominato da una influenza mafiosa così passivamente accettata proprio dalla stampa e dalle istituzioni che avrebbero avuto il compito di contrastarla. Come è stato possibile?
Nel libro Una città in pugno di Antonio Fisichella (edito da Mesogea) è descritto uno dei casi più emblematici e clamorosi di pacifica e fruttuosa convivenza tra un esponente di primo piano del potere mediatico in Italia e i clan di mafia, senza che ciò abbia creato imbarazzi, reazioni, adeguate attenzioni o curiosità.
Non si sta parlando di Silvio Berlusconi, ma di Mario Ciancio Sanfilippo, il direttore-editore del giornale La Sicilia, il più diffuso a Catania e nell’isola, il controllore di altri importanti mezzi mediatici (radio e televisioni) in grado di rappresentare l’intera editoria italiana come presidente della loro federazione nazionale (la Fieg) e addirittura arrivare a ricoprire il ruolo di vice presidente dell’Ansa, capace di fare fruttare i suoli di sua proprietà come nessun altro proprietario terriero nella storia recente, di diventare da editore il più grande costruttore di centri commerciali in Sicilia.
Mario Ciancio Sanfilippo è stato (ed è) il più emblematico e duraturo uomo di potere che ha influenzato e condizionato la storia di una importante città italiana, Catania, e per più di 50 anni ha intessuto “relazioni pericolose” senza essere scalfito (fino a pochissimo tempo fa) da nessuna indagine giudiziaria.
Su questo personaggio Antonio Fisichella ha scritto un saggio/pamphlet degno della migliore tradizione del giornalismo italiano: penna brillante, passione civile, fonti inoppugnabili, indignazione morale e “misura” al tempo stesso. Un’inchiesta che possiede l’impianto e la solidità di un saggio storico con uno stile spigliato e al tempo stesso rigoroso.
Un saggio che somiglia a un romanzo, che parla di cose che sembrano inventate e che invece sono avvenute. Uno dei libri più lucidi e appassionati sui poteri che condizionano una città che siano stati scritti negli ultimi anni e che squaderna davanti ai nostri occhi un “sistema paritario” tra politica, mafia, imprenditoria e informazione.
Un caso diverso, però, da quello di Silvio Berlusconi, il quale è dovuto “scendere in campo” direttamente per difendere il suo impero mediatico, costretto dal crollo dei partiti della prima repubblica che nel tempo avevano tutelato i suoi interessi, mentre Ciancio non ha avuto bisogno di farlo, cioè di candidarsi al Comune o al Parlamento o costruire e poi controllare un partito.
Lui ha rappresentato un partito affaristico-mediatico senza alcun bisogno di una diretta investitura elettorale, sicuro di influenzare permanentemente la scena politica e amministrativa anche quando essa si andava modificando. Il costruttore, cioè, di un “partito/ombra degli affari” che difende a spada tratta gli equilibri dentro i quali si trova più a proprio agio, ma pronto ad assecondare le novità che non riesce ad impedire.
Il potere vellutato
In genere il corso della storia di una città viene segnato da un sindaco, da un parlamentare, da un letterato, da una famiglia di imprenditori, difficilmente da un editore. Il controllo della stampa certo influenza gli eventi di una collettività, ma mai, dico mai, in nessuna importante città si è verificato un monopolio dell’informazione nelle mani di una sola persona per così tanto tempo, e mai un sistema imprenditoriale è stato dominato da una influenza mafiosa così passivamente accettata proprio dalla stampa e dalle istituzioni che avrebbe avuto il compito di contrastarla.
A Napoli, a Palermo, a Reggio Calabria mafie, camorra e ‘ndrangheta hanno suscitato reazioni, passione civile nel contrastarle, voglia di approfondire e capire, a partire dal mondo accademico. A Catania no. Qui si è esercitato il potere vellutato e anestetizzante della stampa e del mondo accademico.
Neppure l’uccisione di un intellettuale del valore di Pippo Fava ha smosso gli studi ed ha evitato di rifugiarsi nel passato per non voler capire il presente. Si è riusciti, infatti, nella temeraria impresa di raccontare senza mafia una città dominata dalla mafia!
Eppure a Catania non sono affatto mancati episodi ripetuti di violenza efferata e nel libro sono ampiamente raccontati. Il potere della mafia non è stato affatto silenzioso e “sobrio”, anzi è stato violento e “pubblico” al pari di ciò che è avvenuto in altre grandi città condizionate dagli omicidi mafiosi, dallo sterminio degli avversari e degli oppositori politici e istituzionali, dal rumore delle bombe e dei mitra, come a Palermo, Reggio Calabria e Napoli.
A Catania, però, si è avuta la faccia tosta di negarne l’esistenza, anche di fronte a omicidi e attività di capillare controllo del territorio di inequivocabile matrice mafiosa.
Il giornale La Sicilia, ad esempio, pubblicava il necrologio di un mafioso a firma dell’uccisore di Pippo Fava, mentre non volle pubblicare il necrologio del commissario della squadra mobile di Palermo, Beppe Montana.
La stampa a Catania ha accettato con il proprio silenzio che una parte dell’imprenditoria avesse rapporti stabili con la mafia, quasi come un normale, banale e incontestabile corso delle cose. Ha svolto, cioè, una funzione di normalizzazione del potere imprenditoriale della mafia e di accettazione di essa nella classe dirigente della città.
La legittimazione dell’agire mafioso ha trovato lo strumento più adatto nell’uso accorto de La Sicilia e del suo editore/direttore, avvezzo come il Conte zio manzoniano «a sopire e a tranquillizzare», abile nell'arte sottile di simulare e dissimulare, minacciare e lusingare pur di ottenere i propri scopi.
Ciancio è stato il “Conte zio di Catania”, capace di giustificare e rendere impuniti i “don Rodrigo” e di utilizzare i “Bravi” e gli “Innominati” per tutelare i propri affari e dividerli con essi quando ciò era necessario.
E’ vero, ci sono stati nella storia del giornalismo altri editori/direttori. Da questo punto di vista il ruolo di Ciancio non è fuori dalla tradizione, anche se negli ultimi anni casi del genere sono sempre più rari. Quello che è davvero singolare è il fatto che Ciancio è editore/direttore senza scrivere quasi mai articoli sul giornale che è di sua proprietà e che al tempo stesso dirige. Come se non si fidasse da editore di dare in mano il giornale a un vero giornalista.
Qualche commentatore ha paragonato la vicenda di Ciancio a quella di Eduardo Scarfoglio editore e direttore de Il Mattino di Napoli tra fine Ottocento e inizio del Novecento. Quello stesso Scarfoglio che nel 1904 fu chiamato dai Florio a dirigere l’Ora di Palermo e che era stato ampiamente toccato dall’Inchiesta Saredo sulle attività clientelari/criminali nella Napoli di fine Ottocento. Scarfoglio, assieme alla moglie Matilde Serao, era certamente una penna affilata al servizio degli affari, ma scriveva, e come scriveva! Ciancio ha fatto lo stesso di Scarfoglio, cioè ha utilizzato il giornale per favorire i suoi fini economici, ma senza scrivere lui direttamente. E mentre Scarfoglio si faceva prendere oltre che dagli interessi anche dall’umore, da un carattere vulcanico, da uno sfidare sempre in prima persona gli avversari (e a volte mostrandosi fin troppo schierato) in Ciancio invece c’è un’avidità più “sobria”, che non ama occupare la scena ma va direttamente al sodo. In questo aspetto Ciancio si mostra in linea con un particolare stile che ha influenzato anche l’immaginario mafioso.
La sua è una capacità notevole di tenere a bada la vanità. La “roba”, gli affari sono più importanti dell’apparire. Un uomo sobrio, che non ama presenziare, che non si concede alla mondanità. A dimostrazione che il potere è quello che si esercita non quello che si vede. Insomma, un “uomo di sostanza”, un potente che non deve esibire il potere per esercitarlo, ma esercitarlo senza darlo a vedere. Facendolo pesare ma non necessariamente palesare.
E resta la domanda ripetuta e angosciante sottostante l’intero argomentare del libro: come mai Catania ha potuto esprimere insieme un Ciancio Sanfilippo e i quattro Cavalieri del lavoro (Graci, Finocchiaro, Rendo e Costanzo), come mai ha potuto assistere passivamente a un omicidio come quello di Fava, passando sopra le dichiarazioni rese a Giorgio Bocca dal generale Dalla Chiesa prima di essere ammazzato («È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale.
Oggi la Mafia è forte anche a Catania anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana”), come mai ha sopportato tutto ciò senza che si siano operate delle fratture nette con la storia precedente, cosa che pure è avvenuto in altre realtà condizionate dalla presenza mafiosa?
E’ indubbio che questa operazione di annebbiamento, di occultamento, di vera e propria “omertà di èlite”, non poteva essere svolta solo da Ciancio e dal suo giornale. Altri poteri hanno remato nella stessa direzione. In particolare ha contato innanzitutto il ruolo di sostegno (o di non adeguato contrasto) da parte della magistratura, delle forze di sicurezza e di tanti esponenti delle istituzioni.
Non è un caso che proprio a Catania un magistrato abbia potuto scrivere in una sua sentenza del 1991 queste parole a proposto del pagamento del pizzo alla mafia: «Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi... se tutti facessero così dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme». Si tratta del magistrato Luigi Russo. Ciancio non avrebbe potuto argomentare meglio.
E che dire del fatto che un prefetto e un questore della repubblica abbiano potuto tranquillamente partecipare all’inaugurazione di un salone d’auto del boss Nitto Santapaola? Molti sono stati i prefetti che hanno negato l’esistenza della mafia a Catania, anche dopo l’uccisione di Pippo Fava, addirittura dopo le dichiarazione di Dalla Chiesa. Molti sindaci hanno espresso lo stesso parere anche dopo il 1984. Mai in nessuna città la negazione della mafia ha potuto godere del sostegno della stampa come a Catania, neanche a Palermo. In nessuna altra realtà si è avuta la faccia tosta di sostenere che la mafia non esisteva, negando il fatto palese a tutti che quella mafia occultata stava diventando parte integrante della storia stessa della città, della sua vita politica, imprenditoriale e sociale. La Sicilia è stato il giornale dell’omertà dell’élite catanese.
Imprenditori e Cosa nostra
Ma oltre alla comprensione delle istituzioni, il sistema mafioso di Catania ha potuto contare su di una interpretazione originale da parte del mondo imprenditoriale nel rapporto con la mafia.
In questo originale modello di relazioni tra mondo legale e mondo criminale, tra mondo mediatico e mondo violento, non è la mafia che usa la stampa e gli imprenditori (oltre che la politica), ma sono gli imprenditori e i proprietari di giornali che si servono della mafia.
La mafia catanese è stata considerata, insomma, una variabile del mondo degli affari, costruendo un “condominio” in cui non sono applicati limiti morali né di metodi nel perseguimento degli affari. Equesto è avvenuto per merito di una interpretazione “tolemaica” della mafia, in cui è il sole che gira attorno alla terra, cioè è la mafia che gira attorno al sistema affaristico.
In questo sistema i mafiosi vengono considerati dei normali uomini di affari, forse solo un po’ rozzi e violenti, anzi una variabile aggressiva e violenta del potere politico-imprenditoriale, ma non estranea ai valori della stessa classe dirigente della città.
Un altro elemento accomuna la mafia a una determinata categoria di imprenditori che provengono dalla rendita fondiaria e che si sono specializzati nell’edilizia: l’assenza del rischio imprenditoriale, perché essi operano solo all’interno di mercati protetti dalla politica, cioè appunto quello edilizio e quello del controllo e dello sfruttamento dei suoli. La speculazione è la loro comune specializzazione. Sono tanti, infatti, i punti di contatto della rendita fondiaria con l’orizzonte imprenditoriale mafioso. E anche in quella nuova dimensione parassitaria che sta acquisendo la grande distribuzione commerciale.
Non a caso Catania, grazie a Ciancio e ai suoi alleati, è diventata capitale europea dei centri commerciali, perseguendo “non un modello di sviluppo ma di consumo”.
Nel campo dei suoli e dell’edilizia per fare l’imprenditore non devi essere un innovatore, ma detenere relazioni con il mondo politico, amministrativo e burocratico, e devi saper controllare la pubblica opinione.
Sono le relazioni e l’influenza sull’opinione pubblica il particolare capitale di questa “speciale” imprenditoria. I mafiosi, insomma, si collocano a ridosso dell’economia redditiera con una disinvoltura e una nonchalance davvero impressionanti, come se appartenessero allo stesso mondo, allo stesso sentire, agli stessi valori: fare soldi e detenere potere a qualunque costo. Come se la furbizia negli affari fosse solo un altro aspetto della violenza. Come se si fosse instaurata una dittatura degli affari in città attraverso due metodi che portano agli stessi risultati: quello violento (i mafiosi) e quello relazionale (l’imprenditore).
Dunque, non siamo di fronte a un caso, quello catanese, di straordinarie “virtù” imprenditoriali dei mafiosi, ma alla capacità di una vasta classe dirigente di inglobare nel proprio mondo persone che vengono dal mondo della violenza, cioè di trasformare degli assassini in uomini di affari.
Pur di continuare i propri interessi fanno entrare i mafiosi nell’élite della città. Tutto ciò che non possono o non vogliono impedire lo assimilano e lo legittimano.
La ricchezza determina il potere e poi il potere è funzionale ad allargare e tutelare la propria ricchezza anche facendo ricorso alla violenza o alleandosi con i signori della violenza: sono feudatari sopravvissuti ai tempi.
Le due Catanie
Si è costruita così una specie di imprenditoria a “temperamento parassitario-criminale”, nella quale uno dei siciliani più ricchi e potenti controllando un giornale e dei terreni agricoli riesce a ricoprire ruoli nazionali nella stampa italiana, cioè ad avere accesso da protagonista nei salotti che contano della classe dirigente italiana.
Per tutti questi motivi Pippo Fava e Mario Ciancio Sanfilippo rappresentano due Catanie alternative, due Sicilie contrapposte nettamente. E anche due Italie inconciliabili. Ma uno è stato ammazzato nella quasi indifferenza della città, l’altro ha potuto per più di 50 anni fare e disfare tutto ciò che riguardava l’economia catanese e non solo. E l’autore con questo libro non nasconde da che parte si schiera, ma raccontando semplicemente e scrupolosamente i fatti avvenuti.
Antonio Fisichella è autore del libro Una città in pugno, edito da Bur Mesogea
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