- Vent’anni fa il documento noto come “Dottrina Bush” teorizza tra i suoi pilastri, oltre all’unilateralismo e al diritto alla guerra preventiva, l’espansione della democrazia con il “regime change”.
- La novità di una pratica antica era che il cambio di regime non era più difensivo, ma avveniva in teoria per lasciar spazio a nuove generazioni democratiche.
- Adesso la giustificazione del disastro di Kabul che Biden sta offrendo all’opinione pubblica è che l’esercito Usa non avesse mai avuto come obiettivo la cosiddetta “esportazione della democrazia”. Ecco perché questa versione non torna.
La giustificazione del disastro di Kabul offerta all’opinione pubblica statunitense e internazionale è che l’esercito degli Stati Uniti non avesse mai avuto come obiettivo la cosiddetta “esportazione della democrazia”, che invece fu pilastro della “dottrina Bush”, ma che si volesse esclusivamente combattere il terrorismo. La linea difensiva l’ha dettata il segretario di Stato Usa Antony Blinken fin dal 14 agosto, ripreso da centinaia di giornali, ed è stata esplicitata in mondovisione dal discorso del presidente Joe Biden di lunedì 16, uno dei più criticati della storia.
Biden ha sostenuto che gli accordi tra il suo predecessore Trump e i talebani, politicamente fatti propri dal partito democratico e dal suo governo, col ritiro militare dall’Afghanistan e le conseguenze nefaste sotto gli occhi del mondo, attesterebbero solo che gli obiettivi della missione iniziata nell’ottobre del 2001, con la riduzione (peraltro indimostrata) del rischio terrorismo, sia stata portata a compimento con successo.
A chi scrive pare che quanto afferma Biden sia senz’altro non vero, ma sia allo stesso tempo di vasta portata politica e perfino storica.
Riportiamoci ai presupposti della missione militare del 2001, l’esprit du temps post-guerra fredda, e la natura della cosiddetta "Dottrina Bush". L’esportazione della democrazia (un concetto già abbozzato nella prima guerra del Golfo nel 1991), il diritto-dovere all’esportazione con la forza dei valori occidentali in quanto valori universali, fu la base ideologica dell'invasione di fine 2001 come portato storico di un’epoca successiva alla guerra fredda nella quale gli Stati Uniti erano rimasti l’unica superpotenza mondiale. E la guerra fredda era stata, al di là della “fine della storia” di Fukuyama, una vittoria innanzitutto valoriale.
L’interventismo dei valori
Dalla Bosnia al Corno d’Africa, la presidenza democratica di Bill Clinton aveva teorizzato l’interventismo in nome dei “nostri valori”, a partire dalla difesa dei diritti umani. È la “cascata di giustizia” che, secondo Kathryn Sikkink, aveva messo i diritti umani al centro della politica globale. Chi fornisce però il quadro teorico più importante è il campo repubblicano. Di fronte allo strapotere Usa, la spina dorsale dell'ideologia neoconservatrice del "nuovo secolo americano" si basava su una pars destruens dell’ordine mondiale precedente, basata nella rivendicazione dell’“unilateralismo” e nel diritto alla "guerra preventiva" e una pars costruens: l’esportazione della democrazia come forma di legittimazione della primazia statunitense. L'unilateralismo, in contrapposizione al multilateralismo, fu quello che portò George Bush jr. a non ratificare il Protocollo di Kioto sul clima dopo che questo era stato sottoscritto da Bill Clinton, e a recedere dal trattato ABM sulla non proliferazione nucleare, che aveva retto al crollo dell’Unione Sovietica. Alla libertà degli Usa di non render conto a nessuno, neanche agli alleati europei, in quel mondo unipolare, si accompagnava però una pars costruens, la faccia benevola e altruistica dell’esportazione della democrazia come missione fondamentale della politica estera degli Stati Uniti.
Dottrina Bush
Il punto di approdo è il 17 settembre del 2002 quando la “National Security Strategy”, il documento che conosciamo come “Dottrina Bush”, teorizza tra i suoi pilastri, oltre all’unilateralismo e al diritto alla guerra preventiva, proprio l’espansione della democrazia attraverso quelli che chiamiamo “regime change” e, a volte, rivoluzioni colorate. La novità di una pratica antica era che il cambio di regime non era più difensivo, con l’imposizione di un gorilla come un Pinochet al posto di un Allende, ma avveniva, o almeno era giustificato sempre per lasciar spazio a nuove generazioni democratiche in luogo di satrapi veri o presunti.
Nel mondo di allora se c’era un punto in discussione non era certo l’esportazione della democrazia ma l’unilateralismo. Nel campo repubblicano Colin Powell e Condoleeza Rice avrebbero preferito non abbandonare la tradizione del multilateralismo e dell’interdipendenza, almeno con i grandi alleati, che da Rambouillet nel 1975 aveva preso la forma del G6, poi G7 e G8. Prevalse invece la linea dura del vice-presidente Dick Cheney, Richard Perle e Paul Wolfowitz. Questi teorizzavano proprio che le azioni militari unilaterali statunitensi fossero un’opportunità per l’espansione dei regimi democratici nel mondo. Ovvero, è importante capire che fosse proprio l’esportazione della democrazia a giustificare un unilateralismo che si rappresentava né egoista né isolazionista.
Oltre alla “National Security Strategy”, i politologi brasiliani De Castro Santos e Tavares Teixeira individuano ben 391 discorsi di Bush jr. e dei suoi principali collaboratori nei quali viene sostenuto che il motivo delle invasioni di Afghanistan e Iraq fosse «portare democrazia in quelle società». In un altro saggio la prima studiosa afferma che, durante tutti gli anni Novanta e primi Duemila, in ben 415 discorsi di Bush padre, Bill Clinton e Bush figlio i valori della democrazia occidentale vengano definiti «universali e desiderabili per tutto il genere umano». L’espansione dei regimi democratici, si teorizzava, avrebbe portato alla pace globale rendendo il mondo più sicuro e più prospero per tutti. Anche senza ampliare ulteriormente in prospettiva storica, l’espansione di libertà e democrazia era dunque la missione dichiarata che gli Stati Uniti diedero alla loro politica estera alla fine della guerra fredda, da ben prima dell’11 settembre 2001.
È in questo contesto che il 7 ottobre 2001 l'operazione di Stati Uniti e Gran Bretagna in Afghanistan è battezzata “libertà duratura”. Il terrorismo non era sconfitto solo dall’enorme supremazia militare, ma dalla forza valoriale della democrazia. La questione femminile, la cartina tornasole di queste ore, era anche all'epoca centrale proprio per quello: gli Usa dovevano liberare le donne afgane e garantire loro libertà e democrazia. Molta costruzione di senso, e di propaganda, si basò all’epoca sulla narrazione delle donne che, al passaggio dei marines, si levavano il burka. Le fonti dello storico, i discorsi politici, letteralmente migliaia di editoriali sui maggiori giornali del pianeta, confermano dunque che la guerra in Afghanistan si giustificasse con "estendere democrazia, libertà e sicurezza in tutto il mondo". Esattamente ciò che oggi viene negato da Joe Biden.
Export democratico e declino
L'uso del concetto di "esportazione della democrazia" declina rapidamente dal 2011, col sostanziale insuccesso delle "primavere arabe", quando si prende atto che (per esempio) in Egitto avessero democraticamente eletto l’islamista Morsi, tutto meno che un democratico, e quindi fosse tutto sommato conveniente stabilizzare il paese con un nuovo Mubarak come il generale Al Sisi. Era solo propaganda l'"esportazione della democrazia"? In parte lo era, mille evidenze lo dimostrano, gli enormi interessi del complesso militare-industriale, le torture, la pratica delle rendition, le esecuzioni con i droni, la scelta di alleati abietti, non migliori dei nemici che si combattevano, buon ultimo Ashraf Ghani, scappato da Kabul col bottino. Ma per molti anni mettere in discussione che si potesse esportare la democrazia in punta di baionetta, e dubitare della generosità di quegli interventi militari, comportava l'automatica accusa di essere fiancheggiatore di Osama Bin Laden.
A Kabul Joe Biden ha probabilmente compiuto un passo necessario, chiudendo il lungo post-guerra fredda: gli Stati Uniti ammettono di non essere più autosufficienti e che il loro sistema valoriale non possa essere imposto con la forza, archiviando definitivamente la “dottrina Bush”. Finisce un’epoca nella quale molti crimini sono stati commessi in nome dell’esportazione della democrazia e il preteso unilateralismo americano si è infine ridotto a una partita a golf a Mar-a-lago, sostituita dal populismo isolazionista di Trump. Se Biden fosse stato anche sincero nell’ammettere che l’esportazione della democrazia sia stata un’ideologia nella quale in molti hanno creduto, ma che ha lasciato dietro di sé soprattutto macerie, che ci abbiano provato ma abbiano fallito, avrebbe mostrato una statura che gli è invece mancata. Non ha voluto, o potuto, e da qui discende il giudizio aspramente negativo dei più, anche di molti sinceri amici degli Stati Uniti, al suo discorso e al tradimento degli afgani. In quel discorso incerto, in quell’ammissione di impotenza da un lato e di limitatezza delle prospettive dall’altro, nello scaricare le colpe su una classe politica e militare afgana che gli Usa hanno sostanzialmente creato, c’è un segno dei tempi drammatico anche per gli occidentali più critici di quell’avventura. Nel tradire donne e uomini dell’Afghanistan vi è la negazione dell’universalismo valoriale dell’Occidente di libertà, democrazia e diritti umani, che, o sono universali o non sono.
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