- Pensare agli ebrei unicamente come vittime determina un grande alibi: fa comodo ai carnefici che possono giustificarsi dicendo che se gli ebrei non si sono difesi è perché sapevano che le accuse che gli venivamo mosse erano fondate
- Fa comodo agli “Alleati” che non essendo riusciti a proteggere gli ebrei possono scagionarsi sostenendo che gli ebrei per primi non si sono aiutati a salvarsi.
- Sono stati proprio Hitler e il nazismo a fornirci questa visione dell’ebreo unicamente vittima passiva e così, usando questa prospettiva, non facciamo altro che riproporre la visione degli ebrei che ci ha costruito Hitler.
Il prossimo sarà il ventunesimo anniversario dall’introduzione del Giorno della memoria. In questi vent’anni tale ricorrenza è stata celebrata in modi diversi, spesso criticata, sia come legge fondativa sia come modalità di commemorazione. Qualcuno l’ha attaccata perché attorno a questa giornata si concentrano troppe manifestazioni, con il concreto rischio di avere una sovraesposizione che porti verso l’anestetizzazione dei fruitori. Altri si sono concentrati sul fatto che questa ricorrenza trascura i carnefici, nel senso che non vengono adeguatamente spiegate le colpe e le responsabilità dei tedeschi in Europa e dei fascisti in Italia.
Come storico e come esperto di didattica della memoria, il problema più significativo che rilevo nella rappresentazione della Shoah durante il Giorno della memoria (ma non solo in quest’occasione) è il fatto che troppo spesso ci fermiamo alla rappresentazione della parte terminale dell’evento, su Auschwitz- Birkenau, che non rappresenta tutta la tragedia degli ebrei. Quello che le correnti storiografiche più attuali ci suggeriscono è di non focalizzarci unicamente sulla tragedia dei campi di sterminio, perché altrimenti riduciamo gli ebrei all’unico e univoco status di vittime inermi, mentre essi durante la shoah furono anche altro.
La stessa visione di Hitler
Pensare agli ebrei unicamente come vittime fa comodo a tutti perché determina un grande alibi: fa comodo ai carnefici che possono giustificarsi dicendo che se gli ebrei non si sono difesi è perché sapevano che le accuse che gli venivamo mosse erano fondate; fa comodo agli “alleati” che non essendo riusciti a proteggere gli ebrei possono scagionarsi sostenendo che gli ebrei per primi non si sono aiutati a salvarsi; e per ultimo è utile a noi, sia per lo stesso motivo degli alleati sia perché ci permette di autoconvincerci che a noi quel destino non potrebbe mai accadere.
Sono stati proprio Hitler e il nazismo a fornirci questa monovisione dell’ebreo unicamente vittima passiva e, così facendo, seppur inconsapevolmente, ma pure sempre colpevolmente, usando questa prospettiva non facciamo altro che riproporre la visione degli ebrei che ci ha costruito Hitler. Questa pericolosa deriva è data proprio dal fatto che purtroppo non conosciamo adeguatamente la Shoah, o per lo meno non conosciamo tutte le tappe di questo genocidio e l’ideologia che lo ha sostenuto.
C’è un eccesso di memorialistica non adeguatamente guidata e supportata dalla storia, e abbiamo un approccio troppo emozionale e sensazionalistico che si crede valorizzi e avvantaggi la veicolazione dei valori, ma porta verso la banalizzazione dell’evento. Tutto ciò crea effetti di stanca, porta molti giovani (e non solo) a chiedersi perché si parli sempre e solo di Shoah e di ebrei.
Se non sorgono forme di rifiuto, e talvolta anche l’ostilità, si arriva anche a degiudaizzare il genocidio degli ebrei: l’evento Shoah non si deve inquadrare facendo l’elenco delle efferatezze prodotte dai tedeschi e delle sofferenze patite dagli ebrei, ma capendo la radicalità dell’antisemitismo messo in atto dai tedeschi, prendendo consapevolezza della pluralità delle responsabilità dei criminali, che non si esauriscono con i tedeschi. E studiando le reazioni degli ebrei alla persecuzione.
Va messa in pratica la lezione di alcuni grandi storici come Georges Bensoussan o Saul Friedländer: dobbiamo fare lo sforzo intellettuale di non lasciarci influenzare nella comprensione dell’evento attraverso il “senno del poi”. Oggi noi conosciamo l’intera storia, dalle leggi razziali ad Auschwitz, ma un ebreo nel 1933, tanto quanto nel 1939, o addirittura nel 1942 non aveva la consapevolezza del terribile piano complessivo.
Questo circolo vizioso che ci allontana dalla corretta trasmissione dell’evento Shoah può essere interrotto raccontando le reazioni degli ebrei alle politiche naziste. L’ebreo non è più solo vittima ma riacquista il suo status di essere umano. Nel corso delle mie ricerche mi sono reso conto che analizzare le reazioni dei singoli ebrei di fronte alla Shoah permetteva di scomporre il crimine in porzioni più piccole e di vedere più distintamente i dettagli. Scomporre il macro-evento della Shoah in microcasi di studio permette una maggiore visione d’insieme.
Occorre studiare la resistenza ebraica intesa come l’ha spiegata il grande storico israeliano Yehuda Bauer, non solo come resistenza partigiana ma anche come Amidah – parola ebraica che indica un atteggiamento “a schiena dritta” – e come resistenza spirituale, ovvero comprendendo quelle forme di resistenza senz’armi che hanno permesso agli ebrei di migliorare o almeno non peggiorare la loro momentanea condizione. In questo modo possiamo dare un nuova linfa al Giorno della memoria e farla uscire da un cortocircuito che sta riducendo molte delle sue potenzialità come strumento di educazione civile.
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