Il Covid-19 ostacola da mesi le attività di ricerca, aggravando così le condizioni di precarietà di una larga fetta di lavoratori della conoscenza, in gran parte nelle fasi iniziali della loro carriera: dottorandi con e soprattutto senza borsa, post dottorandi, assegnisti, ricercatori a tempo determinato.

Sono al secondo anno di un dottorato che svolgo tra la Francia e l’Italia: gli ultimi mesi mi hanno permesso di osservare l’impatto della pandemia sulla realtà universitaria di entrambi i paesi.

Quella che viviamo noi dottorandi è l’incertezza di un futuro lavorativo, è una precarietà economica, ma non solo. Con i colleghi francesi abbiamo realizzato un sondaggio interno alla nostra università, Sciences Po, che ha evidenziato come più del 75 per cento dei dottorandi patisse gli effetti del lockdown sulla propria salute mentale. Che i dottorandi siano, da ben prima della pandemia, particolarmente affetti da sintomi depressivi è cosa nota e anche studiata, benché frequentemente sottovalutata.

I risultati del sondaggio ci hanno guidato nella mobilitazione per la proroga dei finanziamenti dottorali, la cui procedura è stata precisata poco meno di un mese fa dal ministero dell’Istruzione francese. Tale provvedimento esclude significativamente dai criteri di attribuzione della proroga qualsiasi impatto che non sia misurabile nei termini di un impedimento materiale alla ricerca.

Negli stessi giorni ci organizzavamo, dottorandi di storia antropologia e religioni della Sapienza, con simili parole d’ordine. È il segno di una condizione comune, che travalica i sistemi e le appartenenze nazionali. Non è un caso, allora, che una mobilitazione partita da un solo corso di dottorato abbia raggiunto rapidamente l’insieme dei dottorandi della Sapienza e infine una risonanza nazionale. Abbiamo scritto una lettera aperta che rivendica la necessità di una proroga volontaria di sei mesi per tutti i cicli di dottorati e tutte le fattispecie di dottorandi, un intervento che superi quanto concesso finora dal governo nel decreto Rilancio, cioè una proroga di due mesi solo per i dottorandi dell’ultimo anno. Una nostra delegazione ha incontrato il rettore della Sapienza, Eugenio Gaudio, che si è fatto portavoce della richiesta di sei mesi di proroga presso il ministro Gaetano Manfredi; il 23 luglio ci siamo riuniti in presidio davanti alla Sapienza e siamo stati ricevuti dalla Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui). Se la mobilitazione procede spedita, le risposte concrete sono ancora tutte da venire.

I sei mesi di proroga sono necessari per numerose ragioni. Come molti hanno già evidenziato, infatti, biblioteche, archivi, laboratori sono ancora difficilmente accessibili, se non proprio chiusi. La ricerca sul campo – penso ai miei colleghi antropologi – è materialmente impossibile. Il blocco delle attività di ricerca supera largamente i mesi di lockdown. Il problema non è solo di soldi: è anche una questione di tempo. Il dottorato in Italia, infatti, ha una durata molto rigida: tre anni. Senza proroga, l’unica alternativa per molti dottorandi sarà chiedere una sospensione del dottorato, non pagata, con un conseguente aggravamento delle condizioni di precarietà economica e lavorativa.

Ma le nostre non sono battaglie corporative: le rivendicazioni dei dottorandi non sono separate dai problemi dell’università. Non chiediamo solo di prolungare le borse e i contratti, condizione minima per portare a termine il nostro lavoro. Chiediamo un’inversione di rotta rispetto ad anni di precarizzazione e disinvestimento nella ricerca e nell’università.

Produrre, valutare, finanziare

Nei giorni che hanno seguito il discorso con cui il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato la chiusura delle università, quella in cui lavoro a Parigi ha reagito in tanti modi diversi. Da una parte, si è creata un’inedita vicinanza con i docenti e il personale amministrativo: nelle mail abbiamo cominciato a interrogarci reciprocamente sulle nostre condizioni di salute in un modo che, almeno all’inizio, non suonava formale. Le vite personali: i figli, i gatti, gli arredamenti sono entrati nelle videoconferenze. Dall’altra, l’istituzione ci ha tenuto a ribadire che il confinément era un’occasione imperdibile per lavorare (pur limitandosi a una serie di attività come scrivere, leggere bibliografia, riordinare dati). Un dottorando di Sciences Po ha ben riassunto, in calce al sondaggio, gli effetti stranianti di queste sollecitazioni:

“L’ansia del confinamento e le ingiunzioni ad “approfittare” di questo periodo per lavorare di più comportano una diminuzione del ritmo di lavoro, inducendo sensi di colpa e ulteriore angoscia”.

Una pressione simile l’abbiamo vissuta anche per l’insegnamento. Molti di noi dottorandi, in Francia, tenevano corsi, che sono stati spostati in videoconferenza in condizioni non facili, e all’insegna di un’espressione tutta nuova: la continuité pédagogique. Nota a margine: è indicativo che la continuità pedagogica si sia tradotta, per gli studenti, in continuità valutativa. Pur significativamente diluita, la priorità dell’istituzione e di tanti insegnanti è stata dare un voto, nel timore che gli studenti smettessero di impegnarsi.

Il Covid-19, insomma, ha inasprito le contraddizioni del sistema universitario, votato, più che alla ricerca e alla didattica, alla produzione e alla valutazione quantitativa del lavoro. Eppure, nonostante gli annunci di nuove fasi, i primi passi post Covid dei governi francese e italiano non sembrano porsi in discontinuità con il passato.

Il nuovo governo di Jean Castex ha accolto pochi giorni fa in Consiglio dei ministri la Loi de programmation pluriannuelle de la recherche, una legge di riforma del sistema universitario che ha incontrato, nei mesi scorsi, l’opposizione compatta del mondo accademico. La Lppr aumenta sì il budget alla ricerca, ma in maniera ritenuta insufficiente da numerosi osservatori.

Soprattutto introdurrà nuovi elementi di competizione interna e di precarizzazione nel sistema accademico francese, le cui risorse saranno parzialmente distribuite su base progettuale, valutando le ricerche secondo i cosiddetti criteri di eccellenza e merito. Un meccanismo per certi aspetti simile esiste in Italia da molti anni: è la valutazione della qualità della ricerca, da cui dipende l’allocazione di risorse-premio alle università, anch’essa al centro delle polemiche.

Per avere un’idea di come le classi dirigenti, in Italia o in Francia, immaginano l’università del futuro basta leggere il capitolo del piano Colao dedicato al “sistema di istruzione e ricerca”. Con linguaggio aziendalistico, la task-force propone “la creazione di poli di eccellenza scientifica competitivi a livello internazionale” e, per quanto riguarda i dottorati, di dar vita a “un percorso di ‘applied PhD’ per formare le figure professionali a più elevata specializzazione per il mercato del lavoro”. Se, ai fini di una ricerca libera e stimolante, la priorità dell’università è che gli atenei siano meglio quotati nei ranking internazionali – e non che chi vi lavora abbia uno stipendio dignitoso; se il problema principale dei dottorati è il distacco dal mercato del lavoro – e non che sono pochi e mal remunerati, allora veramente non è cambiato nulla.

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