Noi avevamo scudi di plexiglas e incoscienza. Loro tutti i mezzi di comunicazione e un apparato repressivo caricato a molla. Abbiamo perso, ma quella sconfitta ho imparato una lezione.
Vent’anni sono tanti: in vent’anni nasci e diventi adulto. Vent’anni fa la mia generazione adulta lo è diventata, tutto d’un colpo, con un colpo di pistola sparato in testa.
Genova vent’anni dopo quei giorni di luglio del 2001 fa tremare, fa incespicare il respiro e le parole.
Mi piacerebbe tornare in qualche modo là, in quella che è stata per una settimana la nostra casa: lo stadio Carlini, le piazze e le strade di Genova. E incontrare di nuovo gli sguardi di migliaia di giovani che nei mesi precedenti avevano fatto esplodere di passione, di partecipazione e di idee i forum sociali, i gruppi, le assemblee. Centinaia di voci collettive, dalla Rete Lilliput alle Tute Bianche, unite, a dire che il mondo per come lo stavano costruendo i grandi della Terra era sbagliato. Troppe diseguaglianze, troppe ingiustizie, troppe guerre, troppo egoismo. Mi piacerebbe tornare a quel noi, con loro, e capire perché non ce l’abbiamo fatta.
Combattevamo, forse, un avversario invincibile. Noi avevamo scudi di plexiglas e incoscienza. Loro tutti i mezzi di comunicazione e un apparato repressivo caricato a molla: piazza Alimonda, Diaz, Bolzaneto.
La verità è che abbiamo avuto paura e abbiamo disertato il campo. In molti, moltissimi hanno smesso. Per le botte in testa e nell’anima.
Avevamo ragione noi, con ogni evidenza. E abbiamo perso. Ci siamo persi. Divisi, narcotizzati, sparpagliati ovunque e da nessuna parte, incapaci di contare.
Avevamo ragione
Mi rattrista sapere che in molti, anche a sinistra, ci hanno messo quasi vent’anni per riconoscere che avevamo ragione, che quella globalizzazione neo-liberista era un legno storto. Altri non lo hanno fatto e non lo faranno mai. Ma è la storia che assegna i torti e le ragioni.
Mi piacerebbe che i ragazzi di oggi provassero a capire cosa è stata Genova. Chiedessero, ascoltassero. Provassero a rimettere in moto qualcosa di simile a quel grande movimento democratico, libero, autonomo, trasversale, di idee, persone, pratiche, culture. Con lo stesso obiettivo: cambiare direzione di marcia al mondo. Troppe diseguaglianze, troppe ingiustizie, troppe guerre, troppo egoismo. Tutto ancora troppo, come vent’anni fa e con vent’anni in più di disastri e crisi sulle spalle.
Da quella sconfitta ho imparato una lezione. È una convinzione talmente solida che è l’a priori di ogni ragionamento. Una sinistra italiana ed europea degna non può esistere al di fuori di questa genealogia. Non può nascere nel laboratorio delle alchimie parlamentari, non può nascere intorno ai leader battezzati dai consulenti di immagine. Se vuole essere, deve essere figlia e sorella di quel movimento acerbo e visionario, che ha avuto paura.
Non è sufficiente. So bene che ci vogliono mille altri fattori. Ma è necessario. Di una necessità fragile come la nostra generazione, arcigna come i tempi che siamo chiamati a vivere.
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