- Davvero crediamo che quello tra Israele e Palestina sia un problema di qualche chilometro quadrato conteso? Se la questione di fondo è un problema di diritti, questo può essere risolto solo con la forza del diritto, non con la forza delle armi.
- Per decenni, Stati Uniti, Ue, politici, accademici, personalità e da ultimo il defunto e mai rimpianto “Quartetto” formato da Usa, Ue, Onu e Russia hanno ciecamente perseguito la ormai stantia ed irrealizzabile proposta «due popoli, due Stati».
- Proviamo allora a superare formule magiche e torniamo a puntare all’unica soluzione che disarmi gli estremisti e assicuri i diritti democratici di tutti: è il tempo di una campagna per una nuova entità che governi le terre di Gerusalemme, multietnica e pluralista, nata in seno all’Unione europea.
Dopo la distruzione sabato di un palazzo che ospitava gli uffici della Associated Press e Al Jazeera a Gaza da parte dell’esercito israeliano per colpire un’unità di ricerca di Hamas, il presidente dell’AP Gary Pruitt ha diramato un comunicato che si conclude con queste parole: «Il mondo saprà meno di ciò che sta accadendo a Gaza a causa di ciò che è accaduto oggi». Questa frase ci colpisce soprattutto perché proprio in questi giorni è in dirittura d’arrivo in Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, dove Israele e Autorità palestinese siedono come osservatori, un rapporto “Libertà dei media, fiducia pubblica e diritto alla conoscenza” al quale ci siamo dedicati da oltre due anni.
Dopo gli attacchi mirati a singole figure individuate come «da eliminare», si è passati a colpire le stanze, dalle stanze ai palazzi, dai palazzi si arriverà ai quartieri e di lì all’attacco militare su terra è un attimo. Dall’altra parte non ci sono più le esplosioni sugli autobus, ma il muro non è bastato. Non è bastato nemmeno l’iron dome. Veramente crediamo che sia un problema di qualche chilometro quadrato conteso? Basterà davvero scambiare qualche lembo di terra al confine tra Israele e Cis-Giordania? E che facciamo con città come Lod e Haifa densamente popolate da ebrei e arabi, insieme? Ridisegniamo i confini tra quartieri, erigendovi barriere fisiche e check point presidiati da forze di polizia e militari? Ma se la questione di fondo è un problema di diritti, questo può essere risolto solo con la forza del diritto, non con la forza delle armi.
Per decenni, Stati Uniti, Ue, politici, accademici, personalità e da ultimo il defunto e mai rimpianto “Quartetto” formato da Usa, Ue, Onu e Russia hanno ciecamente perseguito la ormai stantia ed irrealizzabile proposta «due popoli, due Stati». Il risultato dell’inseguimento di una miope divisione territoriale pura e semplice, fondato su due poli distinti, non ha potuto consegnarci che la polarizzazione e lo scontro tra palestinesi e israeliani: i primi intrappolati nella rete terroristica di Hamas e dei suoi finanziatori in Iran e Qatar che hanno come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato d’Israele; i secondi presi nella morsa solitaria di posizioni sempre più di stampo nazionalistico, conseguenza di una collaborazioni politico-militari sempre più strette e di un mutamento morfologico sociale con l’ingresso di immigrati russi che hanno influito sul panorama politico del Paese, sulla natura stessa di Israele.
Proviamo allora a superare formule magiche e smettiamola di raschiare il fondo della botte. Torniamo a puntare all’unica soluzione che disarmi gli estremisti e assicuri i diritti democratici di tutti. Osiamo ripensare l’entità Stato, a ragionare in termini di cittadinanza. Proviamo ad imboccare una via apparentemente folle e idealista, ma forse la sola che contiene una possibile, faticosa, risposta.
In un articolo pubblicato nel novembre 2019 da Foreign Affairs intitolato “La soluzione di uno Stato ci sarà”, Yousef Munayyer, scrittore e direttore della campagna statunitense per i diritti dei palestinesi, scriveva: «Israeliani e palestinesi dovrebbero lavorare insieme per creare una costituzione che protegga i diritti di tutti. La nuova costituzione dovrebbe riconoscere che il Paese ospita entrambi i popoli e che, nonostante le narrazioni nazionali e le voci contrarie di ambedue le parti, entrambi i popoli hanno legami storici con la terra».
Nel 2015, in un articolo sul New York Times intitolato “La Confederazione è la chiave per la pace in Medio Oriente”, uno dei partecipanti ai negoziati per l’accordo di Oslo del 1993, l’ex ministro della Giustizia israeliano Yossi Beilin, ricorda una conversazione con un membro della delegazione palestinese: «Israele e Palestina sarebbero indipendenti in una confederazione, ciascuno con il proprio parlamento e governo, ma anche con istituzioni comuni per temi e servizi comuni come l'acqua, le infrastrutture, l'ambiente, la polizia e i servizi di emergenza».
Sempre nel 2015, il presidente israeliano Reuven Rivlin (Likud) ha auspicato una nuova forma di collaborazione israelo-palestinese, identificando nella confederazione lo strumento più adeguato. A nostro avviso, con la confederazione non si supera il rischio che significative disparità in termini di diritti individuali e collettivi tra i due Stati rimangano. Ma è certamente un buon punto di partenza per il dialogo.
Nel 2003 l’allora ministro degli Affari Esteri Silvan Shalom dichiarò che Israele avrebbe potuto chiedere la piena adesione all’Unione europea. Chi gli aveva messo in testa l’idea? Marco Pannella, che l’aveva avanzata già nel 1988 in piena prima intifada riunendo il Consiglio federale del Partito Radicale a Gerusalemme. L’idea purtroppo non ha mai entusiasmato gli Stati membri dell'Ue soprattutto per l’immancabile “preoccupazione“ per le misure militari israeliane contro i palestinesi.
Anziché esprimere preoccupazione ed invocare la pace, noi europei dovremmo spezzare il circolo vizioso di isolazionismo militare in cui si è rifugiato lo Stato di Israele e offrire l’unica alternativa possibile, ovvero una nuova dimensione, un nuovo spazio di maggiore democrazia e libertà. Gli Accordi di Abramo hanno assicurato una pace maggiore estendendo gli equilibri attuali a Emirati Arabi e Bahrain, ma non se ne sono creati di nuovi.
Ora è il tempo di una campagna per una nuova entità che governi le terre di Gerusalemme. Una entità multietnica e pluralista, dove religioni ed etnie convivano nel segno della cittadinanza. Questa nuova entità dovrebbe nascere in seno all’Unione europea e diventare modello di risoluzione di tanti altri conflitti basati sulla idea nefasta della nazionalità e del confine. Non esistono confini sicuri in una contesa come non esistono muri sicuri in un terremoto. È proprio la flessibilità e la permeabilità delle strutture, la leggerezza e la elasticità che le rende capaci di adattarsi agli urti e riduce il danno invece che massimizzarlo.
È il tempo di credere nella convivenza dei popoli contro gli interessi di chi prospera sui conflitti, a partire dai loro attuali governanti.
© Riproduzione riservata