La deriva della destra, fra ansia di nomine e provvedimenti che privilegiano la competizione imprenditoriale e l’identitarismo rispetto alla collaborazione e al dialogo culturale. La preoccupazione per la mostra su Gramsci annunciata dal ministro Sangiuliano
La nomina del nuovo direttore del Teatro di Roma è solo l’ultimo caso, forse uno dei più clamorosi per metodi e modalità, della progressiva occupazione delle cariche dirigenziali del mondo culturale da parte della destra al governo. Dal MAXXI alla Biennale di Venezia, dal Cepell (il Centro per il libro e per la lettura) al Piccolo di Milano, sono numerosi i casi in cui, nel nome della “liberazione della cultura”, il governo ha imposto nomi e profili vicini culturalmente e politicamente.
Una nuova forma di «amichettismo» si fa largo in ambito culturale, forzando procedure e prassi fino a comportare, nel caso del Teatro di Roma, la prevalenza di un accordo monocolore tra ministero e Regione Lazio ai danni del Comune di Roma.
Ma non si tratta del tradizionale spoil system, discutibile pratica applicata da tutti i governi in cui, a prescindere da valutazioni di merito, vengono sostituite appena possibile le figure di direzione e responsabilità delle istituzioni culturali secondo una logica di lottizzazione, cioè di spartizione chiaramente a vantaggio del governo in carica.
Sin dal suo insediamento, il governo Meloni ha espresso un’ansia di rivalsa storica, di liberazione rispetto ad un presunto monopolio delle sinistre in ambito culturale. Una fame di restaurazione che ha fatto sfregio delle istituzioni culturali, che mette a repentaglio il pluralismo nell'informazione e nelle politiche culturali. La “liberazione della cultura” espressa da diversi esponenti del governo, passa dunque per l’imposizione delle scelte artistiche culturali, come nel caso della mostra di Tolkien alla Galleria Nazionale, con l’obiettivo di legittimare il proprio pantheon ideologico, basato peraltro su mistificazioni e appropriazioni strumentali, come nel caso dell'autore de Il signore degli anelli. L'occupazione della cultura non discute meriti e competenze, come accaduto per il mancato rinnovo del presidente del Cepell Marino Sinibaldi, ma sostituisce pregiudizialmente perché mira a costruire un nuovo assetto culturale, una nuova egemonia culturale.
L’egemonia culturale di gramsciana memoria però si intendeva come una forma di dominio intellettuale e morale sostenuto dalle idee e dalle pratiche, non tanto dall’occupazione di luoghi di potere e di direzione culturale.
Su quali idee e convinzioni è fondata questa pretesa egemonica della destra di governo?
Dai provvedimenti messi in atto finora emergono in maniera ricorrente la conservazione dell’identità italiana, cristallizzata ad un epoca ideale e non soggetta a evoluzioni e negoziazioni, la costruzione di un modello di Made in Italy che privilegia il talento e l’imprenditoria italiana, nonché il «senso di appartenenza alla nazione», il contrasto alla cancel culture per proteggere i simboli della cultura italiana – guai a chi tocca l’Italia coloniale, a chi mette in dubbio la favola degli italiani brava gente, a chi mette in discussione la struttura patriarcale della società. Dalla legge propagandistica del Made in Italy, alle norme inserite dentro al Testo Unico sulla Radiotelevisione (Tusmar) per contrastare la cancel culture, fino all’inasprimento delle pene per gli ecoattivisti che hanno scelto forme di protesta eclatanti sui monumenti storici.
Ecco, il bagaglio di idee su cui fondare una nuova egemonia è una forma piuttosto stringata di conservatorismo reazionario, sciovinismo, legge del manganello contro chi protesta, derive nostalgiche commemorative e infarcito di esoterismi e miti nordici travisati.
A noi dell’Arci questa deriva preoccupa particolarmente. Oltretutto perché viene declinata tecnicamente in provvedimenti che privilegiano la competizione imprenditoriale e l’identitarismo rispetto alla collaborazione e al dialogo culturale, in una società come quella italiana trasformata profondamente dalle migrazioni interne ed esterne. In questo quadro il terzo settore rischia di essere asservito ad un ruolo solo funzionale, quello di mettere in atto pratiche che rispondono ad un nuovo pensiero dominante che ambisce ad un modello nazionale autosufficiente di cultura, invece di pensare ad un arcipelago di identità in dialogo e in trasformazione.
Anche il presidente Mattarella ci ha messo in guardia, nel discorso inaugurale di Pesaro Capitale Italiana della Cultura 2024, sul pericolo di un monopolio del pensiero unico.
Eppure il ministro Sangiuliano quest’anno vuole celebrare Gramsci, esercitando in questo modo l’ennesima appropriazione e lo svilimento di una figura profonda che interroga ancora oggi il nostro modo di fare politica e cultura per ricostruire un pensiero critico collettivo, contro l’individualismo e il capitalismo.
© Riproduzione riservata