Le scuole superiori non riprendono in presenza al 75 per cento, ma solo al 50 per cento, e neppure nei tempi previsti: non prima del 18 gennaio per cinque regioni tra cui Lazio, Piemonte e Puglia; non prima del 25 per Campania, Emilia-Romagna o Lombardia; tutto rinviato al primo febbraio per le ultime sette, tra cui Calabria, Sicilia e Veneto.

Non va affatto bene.

Per ormai complessivamente troppo tempo gli studenti sono rimasti a casa, in condizioni socio-economiche molto diverse tra loro ma tutti accomunati da un crescente disagio psicologico. Altri due o tre Dpcm, altre due o tre ordinanze regionali, ed ecco che una generazione oggi sospesa diventa una generazione interrotta. Non abbiamo bisogno di altri segnali. Basta considerare che alla vigilia di questo ritorno in classe dimezzato avevamo cominciato a perderci pure gli studenti con maggiori possibilità: quelli con case grandi e confortevoli, disponibilità di device e buona connessione, genitori in grado di stare loro vicini. Riusciamo anche solo a immaginare che fine abbiano fatto tutti gli altri?

Didattica della quarantena

La didattica della quarantena ha funzionato male. Del resto, perché abbiamo sperato che andasse diversamente? Abbiamo semplicemente trasferito online le lezioni frontali che non funzionavano neppure quando erano in presenza. Ci sono state le eccezioni, ma un paese ha bisogno di far funzionare la norma. La Dad avrebbe potuto supplire per qualche settimana, al massimo per un trimestre. Ma noi siamo finiti abbondantemente oltre: a una mancanza di socialità e apprendimento così prolungata nel tempo che la malattia è ormai prossima a cronicizzarsi.

Tutto questo ci dice che il valore di tornare in presenza – o in modalità mista, ma dove la parte in presenza è percentualmente molto superiore a quella online – vale adesso ogni giorno di più. Perché da oggi in poi i giorni smettono di essere tutti uguali e ci avviciniamo pericolosamente al momento in cui i danni da scuola chiusa diventeranno permanenti. Mentre continuiamo a spingere perché la scuola torni in presenza il più possibile e ovunque si può – magari accettando anche di non trattare più ogni regione in maniera omogenea al proprio interno, per non tenere i ragazzi a casa anche nei comuni che sarebbero pronti a riportarli in classe – ci sono tre punti specifici su cui intervenire subito.

Le priorità

Il primo è un intervento strutturale di assistenza e sostegno psicologico agli studenti, che li aiuti a interpretare e vivere questo periodo. Il secondo è capire che c’è un’alternativa a dire che la Dad fa schifo. Ed è occuparsene per bene, senza timore che questo indebolisca la richiesta di tornare in classe. Perché resta incerto lo scenario sanitario, e perché molte delle cose che stiamo imparando in questi mesi ci torneranno utili nella scuola di domani. È ora di occuparci delle piattaforme: Google, Microsoft, WeSchool. Fuori i numeri su chi e come le sta usando; e che venga chiarito come stanno gestendo i dati personali di studenti e docenti. Inoltre, serve un massiccio piano di formazione obbligatoria dei docenti. Il ministero dia incarico domattina di trasformare il corpo docente di ogni scuola d’Italia in una “avanguardia educativa”.

Terzo, la prossima estate. Ne abbiamo già persa una quando il paese ha vissuto la fine del lockdown come un tana-libera-tutti invece che come un periodo di recupero. Non possiamo adesso ripetere lo stesso errore. Va ripensato il calendario scolastico, come chiede pure il collettivo Condorcet, per far sì che l’estate sia un periodo di ricompattamento e socialità ricostruita. Preceduta da una analisi dei debiti formativi degli studenti che ogni scuola, con l’aiuto di Invalsi, potrebbe fare in maniera mirata sulla propria realtà; e dal lavoro da far partire adesso affinché il prossimo primo settembre tutti i docenti siano al loro posto in classe, non appesi a graduatorie bizantine.

 

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