- Le organizzazioni sindacali del settore energia hanno dichiarato uno sciopero nazionale per il 30 contro la norma che prevede che soggetti a cui sia stato assegnato direttamente, senza gara, una determinata attività, debbano esternalizzare l’80 per cento dei servizi e delle opere.
- La motivazione dichiarata è quella di superare inefficienze della gestione diretta degli affidamenti. Nella sostanza, per colpire qualche soggetto che senza alcun titolo aveva ricevuto un affidamento diretto, si colpiscono tutti.
- Al personale impiegato da licenziare si applicherebbe una clausola sociale. Nella sostanza, si fa il contrario di quello che si sta creando agitazione in settori in cui la stabilità occupazionale è stata mantenuta durante la recente pandemia.
Le organizzazioni sindacali del settore energia hanno dichiarato uno sciopero nazionale per il 30 giugno contro l’interpretazione data da alcune Istituzioni alla disposizione prevista dall’articolo 177 del codice appalti. La norma prevede che soggetti a cui sia stato assegnato direttamente, senza gara, una determinata attività, debbano esternalizzare l’80 per cento dei servizi e delle opere anche se svolte da personale proprio. La motivazione dichiarata è stata quella di superare eventuali inefficienze derivanti dalla gestione diretta degli affidamenti.
Si tratta di una norma che non tiene conto di legittimi affidamenti, di situazioni transitorie legate ai processi di liberalizzazione concordati con Bruxelles e della tutela costituzionale della libertà d’impresa. Nella sostanza, per colpire qualche soggetto (i cui nomi sono comunque verificabili facilmente) che senza alcun titolo aveva ricevuto un affidamento diretto, si colpiscono tutti, senza alcuna distinzione. Per questa ragione si è sviluppato un contenzioso promosso dalle imprese interessate, iniziato nel 2016 e finito in Corte Costituzionale su rinvio del Consiglio di Stato.
Dalla stessa parte
Nelle interlocuzioni sviluppate in questi anni con i diversi governi su un tema che vede imprese e sindacati schierate sulle stesse posizioni, la discussione non è mai riuscita ad arrivare nel merito; sono state solo concesse proroghe sulla data di applicazione della nuova norma nella speranza che qualche giudice risolvesse il problema. Che tale incertezza penalizzasse investimenti ed occupazione non ha avuto alcun peso, ed il tempo è stato considerato sempre una variabile indipendente.
L’analisi delle motivazioni collezionate per giustificare l’immobilismo sono contraddittorie e in molti casi errate. È stato detto che l’intervento legislativo derivava dal recepimento di norme comunitarie (direttive UE 23, 24 e 25/2014): falso, la materia come rilevato anche da giudici amministrativi è estranea alle direttive. È stato affermato che le concessioni di servizi a rete, anche quelle non scadute, anche se conformi ai processi di liberalizzazione, dovevano essere ricomprese in quanto in contrasto con il mercato dei servizi a livello comunitario: falso, Bruxelles ha bollinato tutti i periodi transitori legati ai processi di liberalizzazione delle concessioni statali e locali (per il settore elettrico sino al 2029).
Vera concorrenza?
È stato sostenuto che la norma voleva promuovere la concorrenza nei servizi pubblici locali: sbagliato, la norma non si applica alle gestioni in house e quindi di certo non opera a favore del mercato. È stato, infine, asserito che la norma era finalizzata a colpire le concessioni autostradali e non si potevano produrre doppi regimi: sbagliato, per quelle concessioni vige una norma più favorevole nonostante si tratti di infrastrutture civili.
L’applicazione della normativa vigente, che prevede pesantissime sanzioni a far data dal 1 gennaio 2022 nei confronti delle imprese inadempienti, comporta la necessità di definire il perimetro delle attività, mantenere eventualmente, e se possibile, internamente quelle più strategiche ed esternalizzare il resto, anche in caso di standard qualitativi ed economici ottimali.
Al personale impiegato da licenziare si applicherebbe una clausola sociale, diversa peraltro d quella derivante da un trasferimento di ramo d’impresa trattandosi di una novazione del rapporto di lavoro. Nella sostanza, si fa il contrario di quello che si sta invocando per favorire la ripresa, creando agitazione anche in settori in cui la stabilità occupazionale è stata mantenuta durante la recente pandemia. Più che un’efficienza a favore delle comunità, si crea una destrutturazione delle imprese ed una perdita del valore patrimoniale dello Stato e degli Enti Locali che spesso ne detengono la partecipazione.
Difficile comprendere perché un governo che sa far di conto lasci scorrere il tempo senza individuare una soluzione. Difficile trovare chi ne tragga vantaggio: le stesse imprese appaltatrici non possono che avere riflessi negativi, vedendo rinviati investimenti di medio lungo periodo. Di questo dovrebbero accorgersi anche le loro associazioni di categoria. Senza una definitiva soluzione il rischio è che una parte dei protagonisti dell’attuazione del Pnrr parta azzoppata. Non resta che sperare che qualcuno se ne accorga prima che sia troppo tardi.
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