Sta per iniziare il secondo anno di detenzione di Patrick Zaki.
Alla fine dell’udienza precedente, il 17 gennaio, l'avvocata Hoda Nasrallah dovette aspettare oltre 48 ore prima di conoscerne l'esito. Questa volta il giudice ci ha messo poco: neanche due ore dopo, aveva già comunicato la sua decisione: ai giornali filo-governativi, che infatti hanno dato subito la notizia, ma non all’avvocata.
In questi giorni si è così consumato l’ennesimo sfregio alle procedure, ai diritti, alla dignità dei prigionieri. Risultato: ulteriori 45 giorni di carcere disposti dal giudice nei confronti di Patrick Zaki.
«I motivi della sua incarcerazione permangono sempre», «le indagini proseguono ancora»: sono ormai 12 mesi che ascoltiamo le stesse parole, pronunciate dai procuratori egiziani per giustificare accuse pretestuose e fabbricate.
Al centro delle “indagini” ci sono, come è noto, 10 presunti post su Facebook che la procura del Cairo non fa vedere alla difesa di Patrick, che li ritiene falsi: post che secondo l'accusa testimonierebbero «l'uso di un account su una rete internet internazionale per destabilizzare l'ordine pubblico, compromettere e mettere in pericolo la sicurezza della società».
Facciamo un passo indietro.
Come si è arrivati fin qui
Patrick Zaki, studente del Master in studi di genere dell’Università di Bologna, viene fermato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020 e formalmente arrestato, dopo lunghe ore di sparizione, il giorno successivo.
Viene indagato per cinque reati, gli stessi contenuti nei mandati di cattura che colpiscono regolarmente attivisti, avvocati, giornalisti, dissidenti e difensori dei diritti umani: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Una persecuzione giudiziaria basata sul “copia e incolla” di inesistenti reati che è una costante degli ultimi sette anni e mezzo di storia giudiziaria egiziana.
Di rinvio in rinvio della detenzione preventiva, proprio perché ufficialmente «le indagini proseguono ancora», da 360 giorni Patrick langue in una cella della prigione di Tora, al Cairo, in condizioni durissime e nel costante pericolo di contrarre il Covid-19, che nell’enorme complesso carcerario egiziano ha già fatto vittime tra i detenuti, il personale amministrativo e la polizia penitenziaria.
In Egitto la detenzione preventiva ha una sola ragione: punire senza un processo e sottrarre all’attenzione dell’opinione pubblica un prigioniero di coscienza. Si può andare avanti così fino a due anni, al termine dei quali l’indagato va a processo, viene rilasciato o ricomincia dal giorno zero, grazie a un nuovo mandato di cattura che viene consegnato sull’uscio del portone del carcere.
Cosa aspettarci ora
Dobbiamo prepararci ad altri possibili mesi di detenzione arbitraria, illegale e immotivata e sperare nel frattempo in una maggiore solerzia della diplomazia italiana, finora concretizzatasi nella presenza di rappresentanti dell’ambasciata alle prime e alle ultime udienze (quelle centrali si sono svolte a porte chiuse a causa dell’emergenza-coronavirus) e nell’impegno, a dicembre, del ministro degli Esteri Di Maio a riportare presto Patrick dai suoi familiari.
È importante insistere. Anche perché Patrick, come lui stesso ha fatto sapere attraverso i suoi familiari, è afflitto ed esausto. Prova nostalgia per la sua Bologna, rammarico per non aver iniziato il secondo anno del suo Master. Aveva fatto una scelta importante, nel settembre 2019: lasciarsi alle spalle il paese natio governato da un regime repressivo e cercare un futuro, non solo accademico ma di vita, altrove. In Europa. In Italia. A Bologna.
L’unico elemento di conforto è che Patrick è pienamente informato sulle iniziative di una sempre più solidale opinione pubblica che sente che la sua è anche una storia anche italiana. Lo ha recentemente confermato il comune di Bologna, che ha conferito la cittadinanza onoraria al “suo” studente con un voto unanime: la prova che storie come quelle di Patrick non dividono ma uniscono.
Patrick è entrato nel suo secondo anno di detenzione. Anche la campagna di Amnesty International, dell’Università e del Comune di Bologna, di tanti altri enti locali e istituti accademici e dell’informazione entra nel suo secondo anno. Sempre con un unico obiettivo: #freepatrickzaki.
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