- Jeff Bezos, a.d. di Amazon, ha donato 791 milioni di dollari, a 16 associazioni ambientaliste. L’iniziativa fa parte di un progetto che prevede la donazione di 10 miliardi per contrastare la crisi climatica.
- Le critiche non si sono fatte attendere. Per primi i dipendenti di Amazon hanno richiamato Bezos alla coerenza. Per molti, questo progetto si inserisce in un ampio disegno di green-washing che non trova riscontro in mutamenti concreti all’interno delle politiche aziendali.
- Non sarebbe meglio tassare i loro eccessivi patrimoni, anziché permettergli di trasformare piccole percentuali dei propri profitti, creando un’immagine pubblica che legittimi la loro ingiusta condizione?
Jeff Bezos, il noto fondatore e amministratore delegato di Amazon, solo qualche settimana fa erogava la sua prima donazione, 791 milioni di dollari, a 16 gruppi e associazioni ambientaliste. Così è stato battezzato il Bezos Earth Fund, un contenitore da 10 miliardi di dollari fondato lo scorso febbraio e teso a finanziare gli sforzi di scienziati ed attivisti nella lotta alla crisi climatica. Un fenomeno definito dallo stesso patron di Amazon come «la più grande minaccia per il nostro pianeta». Tanto dirlo non costa niente.
Questa volta ha superato di gran lunga la lodevole carità cristiana, che tuttavia si è dimostrata troppo spesso un freno all’inverarsi di equità e giustizia. Perché qui non solo la mano sinistra del Ceo statunitense sa fin troppo bene cosa stia facendo la sua omologa destra – quella del business e delle vendite - ma lo sanno anche i milioni di followers che lo seguono su Instagram e Twitter, e un po’ tutto il resto del mondo attraverso televisioni, stampa (e non solo il suo Washington Post), e articoli clickbait di notevole successo. Perché leggere o ascoltare che Bezos ha donato «quasi un miliardo» per sconfiggere la crisi climatica, inevitabilmente fa notizia. E così un’eccessiva ricchezza, d’un colpo si converte in potere ed influenza pubblica facilmente spendibile.
Come parimenti fanno, o hanno fatto parlare di sé, le donazioni di molti altri miliardari volte a contrastare la fame e l’estrema povertà dell’Africa, o le precedenti avventure dello stesso Bezos, tese a favorire l’educazione nella prima infanzia e a risolvere il problema dei senzatetto (che lui stesso contribuisce a creare). Per molti è un momento di conforto, per altri l’occasione per ripetersi che «lo vedi che poi tutto sommato il capitalismo funziona, che comunque i miliardari fanno del bene». Per altri ancora un indizio di doppiezza ed incoerenza, di cui svelare la parzialità e l’interesse di classe.
«Applaudiamo la filantropia di Jeff Bezos, ma una mano non può dare ciò che l’altra sta sottraendo», hanno puntualmente commentato gli attivisti di Amazon Employees for Climate Justice, dipendenti dell’azienda impegnati nel contrastare la crisi climatica.
I soldi di Bezos
I soldi di Bezos, l’uomo più ricco del mondo (che durante la pandemia ha visto lievitare il proprio patrimonio da 113 a 192 miliardi di dollari, +69,9 per cento da marzo, mentre centinaia di milioni di uomini e donne perdevano ogni reddito), si accumulano infatti anzitutto a detrimento dei diritti dei suoi dipendenti (Amazon in Italia paga un co.co.co circa 700 euro al mese), nonché delle possibilità che il nostro clima ha ancora di salvarsi. Esigue, è pur certo, ma che i trasporti a petrolio e l’iper-consumo di materie prime, su cui si fondano i profitti di Amazon, non fanno che assottigliare sempre più. Nel 2019 Amazon (con le sue 51 milioni di tonnellate di CO2 equivalente) ha generato più emissioni dell’intera Svezia. Non sembra proprio una tendenza al passo con l’obiettivo, che la stessa azienda ha adottato, di azzerare le proprie emissioni entro il 2040. Forse tanto retorico quanto lo stadio di Seattle comprato nel giugno scorso e rinominato “Climate Pledge Arena” (anch’esso trionfalmente annunciato sui social da Bezos). A corollario di ciò, si aggiunge la nota passione del Ceo per lo spazio, confermata dal miliardo circa di dollari che investe ogni anno in ricerca spaziale attraverso la sua Blue Origin. Lo ritiene il luogo idoneo alla scoperta di un “pianeta B”, perché, e riferendosi al sovrappopolamento globale lo ha perfino dichiarato, «un giorno questo pianeta dovremo lasciarlo». L’idea che si possa salvare quello che abbiamo, evidentemente, non lo convince.
Il problema dei miliardari
Per contrastare la crisi climatica, che poi non è altro che l’integrazione e concretizzazione più minacciosa sul lungo (anche se relativamente sempre più breve) periodo, di una lunghissima teoria di altre crisi, come ha scritto Kate Aronoff sul Guardian, «sarebbe meglio che i miliardari neppure esistessero». Perché come se non bastasse, ai loro patrimoni già climaticamente e socialmente sporchi, che circa la metà dei super-ricchi ha oltretutto ereditato, (a cominciare dalla new entry Mackenzie Scott con 62 miliardi, la cui unica fortuna è stata essere stata la moglie di Jeff Bezos) si aggiungono anche i loro immensurabili stili di vita.
Secondo le stime di Oxfam, il 10 per cento più ricco del pianeta ha emesso più della metà di tutte le emissioni climalteranti dal 1990 ad oggi. E stringendo il cerchio, un individuo dell’1 per cento (circa 63 milioni di persone), ha emesso 100 volte quanto emesso da uno dei più poveri. Inoltre, secondo un recente studio pubblicato sul Global Enviromental Change, nel 2018 solo l’1 per cento della popolazione mondiale, composto di frequenti viaggiatori in aereo, ha generato oltre la metà delle emissioni da voli aerei.
A ciò si aggiunge un rilevante fattore sociologico, messo in luce da molti studiosi, che rileva l’ansia sociale che si produce nelle società diseguali, in cui i più ricchi trascinano, con i loro stili di vita, i consumi delle classi meno abbienti, che mai potranno eguagliare i loro inarrivabili e insostenibili eccessi. E che così facendo saranno sempre più infelici, contribuendo inoltre al progressivo scadimento delle risorse che devono garantire quel tasso di consumi.
Non tutti hanno le stesse colpe
L’Antropocene, come era geologica in grado di rappresentare l’impatto irreversibile dell’uomo sul pianeta, non è sufficiente. È troppo generica. La responsabilità della crisi climatica non è equamente divisibile fra tutti gli uomini. Il dipendente di Amazon, che in una vita di stenti e incertezze guadagnerà quello che il suo padrone ha monetizzato in mezz’ora, non ha e non può avere le sue stesse colpe. A fortiori se ha una macchina a diesel vecchia e inquinante. Non può essere quindi concesso ai monumenti dell’ingiustizia sociale, tra cui Bezos spicca come Washington sul Monte Rushmore, di usare profitti ingiusti come mezzo di pubblicità della propria innocenza e buonafede, per giustificare ex post l’altrimenti ingiustificabile.
Per salvare il clima e finanziare un Green New Deal globale, dei soldi di Bezos e compagni non abbiamo bisogno. Dobbiamo tuttavia prenderceli lo stesso, ma con le tasse e con i limiti all’accumulazione privata, non con le elemosine: quelle che, come recita il vangelo secondo Matteo, «fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente».
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