- Marina Morelli è mamma e caregiver di due ragazze con autismo con le quali vive a Roma. Riflette su cosa succede quando per cause naturali i familiari vengono meno e dovranno affidare i propri cari più fragili al sistema.
- Quale qualità della vita potrà avere la persona con grave disabilità? Ha nella maggioranza dei casi il sostegno per vivere e trarre benessere dalla propria vita quando vive in famiglia.
- Ma dopo dovrà, col massimo del supporto dei diritti riconosciuti ma non sempre esigibili, cavarsela da sola nel mondo, che ha un problema: rendersi accessibile a tutti sulla base dei diritti.
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Durante un seminario sul Dopo di Noi, tenutosi in Senato nel 2019, un medico sportivo e pediatra, il professor Pierluigi Gargiulo, è intervenuto dicendo che il concetto di salute e di malattia è uno stereotipo, che la persona “sana” non esiste, che l’assunto che disabilità e malattia siano sempre e solo uno stato di non salute o di irregolarità non conciliabili con la nostra codifica di benessere è solo una leggenda.
La legge 112/16, detta “Dopo di Noi”, riferendosi a tutta una legislazione internazionale, tutela il diritto alla vita autonoma e all’abitare della persona adulta con disabilità grave (L.104/92 art. 3 comma 3). Eppure, nonostante l’esistenza di leggi di civiltà come questa, la nostra società sembra avere un problema: per molti resta un’utopia che una persona con disabilità psicofisica possa avere aspettative di vita che non siano quelle di ricevere cure sanitarie. Tanti non concepiscono che un disabile possa vivere la sua vita nel pieno delle sue possibilità e del supporto riconosciuto dai diritti muovendosi liberamente in un mondo ideale per tutti: inclusivo poiché senza barriere materiali e culturali. Esiste, da parte di troppi, la difficoltà a vedere la persona nel proprio simile portatore di diversa abilità. Troppo spesso lo sguardo, ineducato alla diversità, si ferma alla disabilità, immediatamente percepita come malattia e, poiché la patologia non produce incontro, non si riesce ad andare oltre la propria barriera culturale, a vedere la persona, che viene per uno stigma sociale identificata con la sua patologia di fondo, spesso sconosciuta nella sua prima causa. Questa mancanza di conoscenza a tutto tondo non sempre sfocia in comportamenti negativi quali il rifiuto e l’indifferenza, ma, anche in chi sia bendisposto, in una sorta di pietà per il “malato”, mentre ciò che porta civiltà è, a tutti i livelli relazionali, il poderoso rispetto dell’altro nella sua alterità e il riconoscimento della sua dignità di persona.
Al di là del disturbo e del diverso funzionamento, la persona con disabilità psicofisica affronta le giornate con le stesse aspettative di ogni essere umano: cercando di adattarsi all’ambiente, persegue il proprio benessere, ossia ciò che desidera, sogna e le piace, sulla base del proprio carattere.
Scrive James Hillman, psicoanalista, saggista e filosofo statunitense, che nella mente umana sorgono domande che esigono risposte che meritano rispetto al livello al quale vengono poste. Meritano una risposta della medesima natura anche se i livelli di pensiero che governano il riduzionismo della scienza non possono ammetterne la legittimità. Ne deduco sia l’importanza dell’approccio olistico nella presa in carico della cura della persona in genere, il cui benessere fisico non è scisso da quello psichico, e viceversa, oltre a essere condizionato dall’ambiente che può esaltare, limitare e impedire l’espressione di sé, sia il limite di molti sistemi valutativi delle abilità e del quoziente intellettivo.
Ciò ha molto a che fare con il Dopo di Noi. I familiari, che secondo natura dovranno affidare i propri cari più fragili al sistema, si preoccupano della loro futura qualità di vita. La persona con grave disabilità ha nella maggioranza dei casi il sostegno per vivere e trarre benessere dalla propria vita quando vive in famiglia, ma dopo dovrà, col massimo del supporto dei diritti riconosciuti ma non sempre esigibili, cavarsela da sola là fuori nel mondo, che ha un problema: il rendersi accessibile a tutti sulla base dei diritti.
In conseguenza di tutto ciò, la popolazione fragile è spesso costretta a vivere ai margini e soggetta a valutazioni di tipo funzionale, che tenendo in poco conto l’interezza della persona degradano lentamente nel problema della gestibilità: una lettura della persona che nei casi più complessi destina chi non ha più sostegno familiare a una vita in luoghi chiusi, sedicenti protetti e con pochi stimoli, e questo riguarda in molti casi, precocemente, anche gli anziani. E mi chiedo se certi sistemi di valutazione delle abilità e del quoziente intellettivo siano adatti alla stesura di un progetto individuale di vita autonoma quale è il Dopo di Noi con il suo ambizioso diritto all’abitare.
I luoghi della socialità e del vivere quotidiano, le attività ludiche e sportive dovrebbero essere alla portata di tutti, non ultime le attività culturali, che rappresentano il nutrimento dell’immaginazione, vera chiave d’accesso al pensiero e allo spessore della vita. Il primo passo verso l’abbattimento delle barriere culturali è rappresentato dallo stare insieme tra pari, la famosa inclusione, facilitata dall’abbattimento delle barriere architettoniche.
La strada da percorrere sembra lunga. Molte leggi ci sono, ma là fuori c’è un problema in ogni luogo e per fare ogni cosa. Dopo avere superato le barriere architettoniche, dopo avere affrontato facce, sguardi e comportamenti personali, tutto ciò che la persona con disabilità riesce a fare e a ricevere sembra essere in conseguenza d’una gentile concessione, mentre sono diritti.
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