Quella chimera che tanti fantasiosi analisti e politici sprovveduti (o viceversa) hanno inseguito si sta squagliando. Parliamo del centro. Il mito del giusto mezzo, proclamato dal politico francese di inizio Ottocento, François Guizot, è stato sempre esaltato in contrapposizione agli estremismi e alle passioni violente, agli arruffapopoli e ai tagliagole di ogni parte.

In effetti cosa c’era di meglio di ritrovarsi in ovattati salotti a discutere amabilmente, a discettare con calma dei vari problemi e ponderare qualche equilibrata soluzione: è il ritratto dei parlamenti ottocenteschi dove la classe dirigente, lontano dal clamore della vita quotidiana e dai possibili tumulti del popolo, si prendeva carico dei destini della nazione.

La pulsione ad un giusto mezzo aveva una qualche ragione nella Francia del 1830. Il paese veniva dalla rivoluzione e da un uso frenetico della ghigliottina, dal turbinio napoleonico e infine dalla violenza della reazione post Congresso di Vienna.

Nonostante siano passati due secoli la visione di un centro che si bilancia tra due estremi per il bene collettivo, continua ad alimentare progetti politici. In realtà il Novecento, nella sua parte più breve, anzi brevissima, quella che finisce negli anni Cinquanta (morte di Stalin prima, e rivelazione de suoi crimini al XX congresso del Pcus poi) ha fornito linfa a chi voleva rifuggire dai conflitti mortali tra rossi e neri. Gli anni Cinquanta segnano infatti il trionfo del centrismo e del terza-forzismo.

La Dc in Italia, il blocco borghese di Adenauer in Germania che sull’esempio del suo amico De Gasperi evitò di governare da solo e imbarcò piccoli partiti per allargare ideologicamente il consenso, i governi terzaforzisti in Francia, il consensus keynesiano in Gran Bretagna per cui i conservatori non smantellarono le riforme dei laburisti una volta tornati al potere, attestano un periodo di moderazione.

La guerra appena finita, le tensioni tra i due blocchi, un desiderio generale di “tranquillità” (nonostante una certa effervescenza sociale in Italia e in Francia, dove, non a caso, vi erano forti partiti comunisti) favorivano quel clima. Ma alla fine degli ani Sessanta tutto cambia. A scossoni, con balzi successivi più che linearmente, la politica si increspa e si radicalizza.

Tre rotture in sequenza simboleggiano il cambiamento: il neoconservatorismo thatcheriano-reaganiano, l’agenda post-materialista dei partiti verdi, l’irruzione del populismo e della di destra radicale.

I sistemi partitici subiscono una centrifugazione e nulla è come prima. La politica diventa più aspra, più conflittuale, più divisiva. Non c’è spazio per chi si pone in una posizione intermedia, di cucitura tra le parti. In Italia più che altrove.

Il collasso democristiano porta ad un bipolarismo gladiatorio. Nemmeno la fiammata grillina di dieci anni fa poteva ridefinire stabilmente il sistema in tre poli: troppo fragile in termini di classe dirigente e di formazione ideologico-culturale per mantenere un ruolo autonomo, come perno del sistema. Ma era un centro radicale per certi aspetti anti sistema, non certo moderato e di giusto mezzo.

Oggi la sua crisi, forse mortale, come quella degli altri due attori che per lo spazio di un mattino hanno pensato di incarnare un terzo polo, fa chiarezza e conforta chi non ha mai visto spazi per posizioni mediane. La divisione tra destra e sinistra, nonostante tanti canti funebri inneggiati per la sua imminente scomparsa, mantiene tutta la sua forza, e rende, prima o poi, irrilevanti coloro che se ne astraggono.

I 5 stelle di Conte ne hanno preso atto, benché a fatica e recalcitrando, e anche Renzi and co. sembrano adeguarsi. Resiste nel suo ridotto giapponese Calenda, ormai abbandonato da tutti. Il sistema è tornato in pieno ad una dinamica bipolare. E da l’addio ai sogni di un moderatismo centrista.

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