Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro–tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà per una settimana le interviste ad alcuni protagonisti del festival Trame, primo evento culturale dedicato ai libri sulle mafie, alla sua tredicesima edizione


Con il libro “Il mio silenzio è una stella” (Einaudi editore), Sabrina Pisu restituisce voce e parole a Francesca Morvillo, l'unica giudice donna uccisa in Italia dalla mafia. Lo fa senza retorica, ma sempre con sensibilità sorprendente, approfondendo la figura di una magistrata all’avanguardia, per oltre sedici anni sostituto procuratore al tribunale minorile di Palermo, impegnata a dare un futuro diverso ai minori finiti in carcere. E in pochissimi sanno o ricordano anche che Francesca Morvillo si occupò al tribunale di appello di processi di mafia, come quello a carico di Vito Ciancimino.

Eppure la giudice è rimasta “incastrata” nelle definizioni stantie delle commemorazioni del 23 maggio: la “moglie di”, morta insieme a Giovanni Falcone e “agli agenti di scorta”. Spariscono anche i nomi nel cratere di Capaci...

Ecco allora un libro necessario che ritrae una donna innamorata del proprio lavoro, riservata, libera.

Sabrina, come ti sei avvicinata alla figura di Francesca Morvillo?

Mi sono avvicinata alla figura di Francesca Morvillo nel corso di una reportage per il settimanale L’Espresso, nel carcere minorile Malaspina di Palermo, dove la sua presenza è ancora sentita perché dal 1972 e per oltre sedici anni lei è stata sostituto procuratore minorile. Nonostante sia stata una magistrata di estremo valore, che ha combattuto la mafia, Francesca Morvillo è passata alle cronache solamente come “moglie di” Giovanni Falcone, ritenuta una vittima collaterale della strage di Capaci.

Ho provato ad allargare e capovolgere lo sguardo, mi sono spinta in quello spazio di silenzio che ha contraddistinto la vita di Francesca Morvillo, il suo impegno quotidiano, totale, e mai non offerto al clamore mediatico, per provare a raccontare quel suo coraggio, quel senso di dovere vissuto silenziosamente.

L’estremo riserbo e la totale assenza di protagonismo, la sua e anche quella della famiglia Morvillo, non sono stati congeniali ai discorsi da palcoscenico, da applausi e lacrime auto-assolutori, a uso e consumo della retorica di una certa, per me pericolosa, antimafia.

Per questo ho voluto vedere la sua storia, e che fosse vista, con e dai suoi occhi perché Francesca Morvillo non è stata una donna appendice del marito Giovanni Falcone, non è stata un’ancella, ma una figura autonoma, indipendente, tenace e innamorata, innanzitutto, di un ideale di giustizia che ha anteposto alla sua stessa vita. Un amore per la giustizia che è una guida ancora oggi: silenziosa e potente, determinata come lei.

Proprio a partire da quanto hai appena detto, vorrei chiederti una riflessione sul fatto che ci siano vittime di serie a e vittime di serie b.

Il giudice Cesare Terranova, ucciso nel 1979 a Palermo in un agguato mafioso insieme al maresciallo di polizia Lenin Mancuso, diceva «che fare una cosa è farla bene». Chi ha fatto il proprio dovere bene, andando fino in fondo, e spesso con la consapevolezza di poterne morire, deve essere ricordato con lo stesso spazio e la stessa dignità.

Io, però, farei un passo indietro, ed è quel passo che ho fatto per scrivere il libro perché credo che sia importante, innanzitutto, intendersi sul significato di memoria perché la memoria può anche essere uno specchio deformante, uno scrigno di bugie. La “memoria critica” è l’unica possibile ed è quella memoria che combatte la retorica, che non si presta a celebrazione fini a se stesse, all’esibizione del dolore dei famigliari delle vittime, del dolore che resta dolore, che anestetizza e assolve nel rito collettivo del momento, e ci priva della nostra responsabilità, personale, civile.

La memoria critica è quella che guarda, che scava nel passato per incidere sul presente, che chiede che quello che è accaduto, che l’estremo, il totale impegno per la giustizia di persone come Francesca Morvillo resti il corpo di una carne viva, non quello di un eterno funerale. L’unica vera memoria possibile, e leale, è quella che si traduce in un impegno concreto, è quello che esige, e si mette alla ricerca dei pezzi di verità mancanti sulle Stragi del 1992, che chiede alla politica un’azione tangibile contro le mafie, una presa di distanza chiara, netta – che si oppone e sottrae alle parole vuote da palcoscenico: altrimenti queste vittime continueranno ad essere uccise dall’indifferenza, dalla rassegnazione e dalla retorica.

Cosa ti ha colpito di più di Francesca Morvillo?

Dal 1972 e per oltre sedici anni lei è stata sostituto procuratore minorile e si è dedicata con estrema cura, sensibilità e un approccio all’avanguardia per l’epoca, al recupero dei giovani che ieri, come oggi, finiscono ancora bambini dietro le sbarre del Malaspina di Palermo, un Istituto Penale Minorile maschile, con ragazzi dai 14 ai 25 anni che hanno commesso reati contro il patrimonio, come furti e rapine, spaccio di droga e reati contro la persona, come omicidi.

Il loro destino, ieri come oggi, sembra scritto dalla nascita in quartieri dove il governo è in mano alla piccola e grande criminalità. Un destino, come racconto nel libro, al quale Francesca Morvillo si è opposta con tutta se stessa: lei ha dato ai giovani una fiducia e un’attenzione mai ricevute prima, è stato il primo giudice a entrare nel carcere e dialogare, dare fiducia a questi giovani: con una visione e un metodo inediti, mettendo sempre al centro l’interesse, la tutela del minore e le sue esigenze educative, con l’obiettivo di reinserirlo socialmente anticipando, nei fatti, la riforma del 1988 che disciplina ancora oggi il processo penale a carico di imputati minorenni, perseguendo il fine educativo e di reinserimento sociale.

Mi ha colpito molto questa sua estrema visionarietà e capacità di vedere ed esigere un futuro pulito per questi giovani, la sua umiltà e la grande dedizione, normalità, con cui faceva il suo lavoro.

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