Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Questo segmento della decisione si pone in prosecuzione logica con gli altri ma adesso la questione diviene centrale poiché eventuali minacce recapitate a Berlusconi, a questo punto come rappresentate (anzi come primo rappresentante) del governo da lui presieduto, non sarebbero più qualificabili come prospettive su scenari futuri ed incerti ma varrebbero ad integrare -appunto se dimostrate - il reato aggravato di cui all’art. 338 c.p..

In effetti è stata acquisita prova del fatto che Vittorio Mangano, anche nel periodo successivo all’insediamento del predetto governo, ebbe degli ulteriori contatti con Dell'Utri, nel giugno-luglio 1994 e poi nel dicembre dello stesso anno, ricevendo, di volta in volta, aggiornamenti sulle azioni che il governo (o il partito di Berlusconi) stava portando avanti in linea con l’impegno preso dallo stesso Dell'Utri durante la campagna elettorale da poco conclusa (v. Parte Quarta della sentenza di primo grado, Capitolo 4, paragrafo 4.4).

Tuttavia, per come ha riconosciuto la stessa decisione impugnata, “... non v’è e non può esservi prova diretta sull‘inoltro della minaccia da Dell‘Utri a Berlusconi perché ovviamente soltanto l‘uno o l‘altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui”.

In mancanza della prova diretta la sentenza si è affidata alla prova logica: vi sono, tuttavia, ragioni logico—fattuali che conducono a non dubitare che Dell ‘Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa “cosa nostra” mediati da Vittorio Mangano (‘ma, in precedenza, in altri casi, anche da Gaetano Cinà,).

Se, dunque, la prova è logica - o logica fattuale, come definita - occorre procedere con ponderatezza poiché, se il nostro ordinamento consente di pervenire alla condanna sulla scorta di una prova di tal fatta, è altrettanto evidente che in questi casi si imponga un esito immune da alternative basate su un substrato egualmente logico e tale da condurre ad un risultato diverso; con l’ulteriore ed anch’essa basilare precisazione che, in caso di plurime scelte esegetiche razionalmente percorribili, dovrà prevalere la soluzione che conduca all’esito favorevole per gli imputati (in dubbio pro reo).

Come già affermato in precedenza in questa motivazione, la prova logica, come strumento di accertamento dei fatti, si dissolve se le venga meno il supporto della mancanza di plausibili spiegazioni alternative; e in questo caso il rischio di incorrere nel classico vizio della fallacia dell’affermazione del conseguente è altissimo.

Occorre, pertanto, ripercorrere il ragionamento seguito in primo grado per valutare se si tratti dell’unica interpretazione, dovendo anche aggiungere che non basta la coerenza logica rispetto ad un determinato esito probatorio ma è necessario che tale risultato discenda dagli elementi indiziari, in assenza di alternative coerentemente ed egualmente percorribili.

[…] Alla luce di queste premesse, improntate alla presunzione di non colpevolezza di cui la locuzione “al di là di ogni ragionevole dubbio” costituisce il necessario postulato, occorre approcciarsi alla motivazione di primo grado secondo le coordinate delineate, in specie, nella parte dedicata alla trattazione della posizione dell’imputato Dell'Utri.

Il “consolidato ruolo” di Dell’Utri

Ebbene, il primo dei “fatti” a base del giudizio di colpevolezza è stato individuato nel consolidato ruolo di intermediario, tra gli interessi di Cosa nostra e gli interessi di Berlusconi, svolto con continuità da Dell'Utri incontestabilmente (perché definitivamente accertato per effetto delle ricordate sentenze irrevocabili) dimostrato dall’esborso, da parte delle società facenti capo a Berlusconi, di ingenti somme di denaro versate a Cosa nostra.

Sul punto la sentenza muove dalla premessa secondo la quale, come acclarato irrevocabilmente con la condanna per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., “... Dell'Utri, senza l’avallo e l‘autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme per conto di quest‘ultimo recapitate ai mafiosi.

In riferimento alla condotta per la quale Dell'Utri è stato condannato ci si può rifare (per come analogamente ha fatto la decisione di primo grado di questo processo) alla sentenza della Corte di Appello di Palermo del 25 marzo 2013.

Da tale decisione si ricava, invero, che già dalla precedente pronunzia della Corte di Cassazione di annullamento della precedente sentenza della Corte di Appello di Palermo del 29 giugno 2010, era derivato il definitivo accertamento “in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all‘attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza, collaboranti gravitanti all‘interno di cosa nostra di alcuni precisi fatti indicati nei seguenti punti:

“- l‘assunzione - per il tramite del Dell ‘Utri - di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di cosa nostra;

- la non gratuità dell‘accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell‘accordo essendosi posto anche come garante del risultato;

- il raggiungimento dell‘accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell ‘Utri che, di quell‘assunzione, è stato l‘artefice grazie anche all‘impegno specifico profuso dal Cinà”.

Tali condotte, sostanzialmente “consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di”cosa nostra” al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l‘associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell‘imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in cambio di una generale protezione, sono state, quindi, ritenute sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all‘imputato di concorso esterno in associazione mafiosa”.

Secondo la sentenza della Corte di Appello del 2013, dunque, era “incontestabile che, nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e durante il dominio di Salvatore Rima, non si è registrata alcuna interruzione dei pagamenti cospicui da parte di Silvio Berlusconi, essendo “...emerso che l’imputato (con il Cinà) ha agito in modo che il gruppo inprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia, a titolo estorsivo, e ciò fino agli inizi degli anni ‘90.”.

Va anche aggiunto che, secondo quei giudici, la “cifra notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa”, voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida della “cosa nostra” palenriitana, non aveva “inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e Dell‘Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che — per i motivi più volte evidenziati — è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992”.

Sino al 1992, pertanto, sono stati ravvisati “tutti gli elementi costitutivi del delitto contestato non essendo mai emerso alcun fatto da cui poter desumere un mutamento dell‘elemento psicologico di Dell‘Utri” che investiva “sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica, che dopo quasi un ventennio Dell‘Utri ben conosceva, sia il contributo causale recato con il proprio comportamento alla conservazione ed al rafforzamento dell‘associazione mafiosa con la quale consapevolmente e volontariamente l’imputato interagiva dal 1974”.

Ed è ugualmente utile puntualizzare in questa sede che, ancora secondo quella sentenza della Corte di Appello del 2013, la “...peculiarità del comportamento di Dell‘Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di cosa nostra non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell‘intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo” e ciò non per “t’avvisare relazioni e contiguità sicurweunente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee all‘area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione”, ma per “valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all‘associazione mafiosa, ha voluto consapevohnente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi. rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un ‘attività di sostegno all‘associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento”.

I periodi “compromessi”

A ciò va aggiunto che la sentenza della Corte di Cassazione del 9 marzo 2012 (di annullamento parzialmente e con rinvio) ha provveduto a suddividere il periodo rilevante per l’imputazione di concorso esterno (che il giudice di seconde cure aveva fissato nell’arco temporale 1974 — 1992 anziché tino al 1998, come sostenuto dal Tribunale) in tre diversi sottoperiodi: un primo periodo dal 1974 al 1977; un secondo periodo dal 1978 al 1982; un terzo periodo dal 1983 al 1992.

A proposito del primo indicato sottoperiodo, è stata confermata la sentenza impugnata nella parte in cui quest’ultima aveva ritenuto dimostrato che Dell'Utri, nel 1974, avesse favorito la stipulazione di un accordo tra Silvio Berlusconi e gli allora vertici di Cosa nostra — accordo in forza del quale Berlusconi avrebbe versato cospicue somme di denaro in cambio di protezione per sé e la propria famiglia — e che, nei tre anni successivi, si fosse occupato di garantire l’esecuzione di tale accordo, provvedendo personalmente a consegnare il denaro di Berlusconi a esponenti della associazione mafiosa.

Infine, con la già citata sentenza della Cassazione del 9 maggio 2014, che ha reso definitiva la condanna di Marcello Dell'Utri alla pena di anni sette di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stato affermato che anche nell’ultimo periodo, coincidente con il decennio 1983-1992, Dell'Utri aveva mantenuto il dolo specifico e diretto del concorrente esterno dal momento che aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da Cosa nostra sia l’efficacia causale della sua attività per il mantenimento della stessa associazione criminale in particolare assicurando una protezione alle attività imprenditoriali del Berlusconi.

Tuttavia tutti questi elementi, che pure valgono a delineare i conclamati rapporti di Dell'Utri con l’organizzazione mafiosa, non possono essere in questa sede trasfusi sic et simpliciter per asseverare la consumazione della minaccia a Como politico dello stato rappresentato dal governo di cui si è detto e ciò, non solo perché la condanna irrevocabile a carico di Dell'Utri è limitata ai fatti commessi fino al 1992 (argomento sul quale e tenacemente si sono spese le difese), ma soprattutto perché quella condanna ha riguardato il concorso esterno nell’associazione mafiosa, ovvero un reato che come noto non implica l’adesione al sodalizio e l’affectio societatis.

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