Eravamo tutti proiettati all’attacco, perché in quel periodo abbiamo cercato di non giocare semplicemente di rimessa, come ha sempre fatto lo Stato, reagendo con durezza solo nei momenti di emergenza. Anzi, a ben vedere, neppure in quei momenti lo Stato ha mai giocato in attacco
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore
Poi c’era Peppino Di Lello, il pupillo di Rocco Chinnici. L’uomo di sinistra che, dopo avere vissuto, dando il meglio di sé, l’esaltante e irripetibile esperienza del pool, ebbe una lunga e prestigiosa carriera politica. Deputato alla Camera in Abruzzo sino al 1996, parlamentare europeo per il Partito della Rifondazione Comunista sino al 2004, senatore della Repubblica, sempre per quel partito, sino al 2008.
A rifletterci bene, in quest’epoca di forti divisioni, mi viene da ridere nel pensare come sia stato possibile che uno capace di andare in manifestazione con i metalmeccanici indossando la tuta blu sia riuscito a lavorare senza problemi con Borsellino, “monarchico” e aderente al Fuan. Ma erano altri tempi e le situazioni estreme contribuiscono a cementare le amicizie. Un po’ come succede in guerra. E Palermo era in guerra.
Di Lello è un abruzzese dal fisico esile e già allora aveva alle spalle una vita difficile. Eppure lavorava come un matto senza risparmiarsi. Per noi era l’intellettuale, il filosofo.
La mattina del 28 settembre 1984 era in corso il saluto di commiato al nostro cancelliere dirigente, andato in pensione, quando Giovanni si avvicinò a me, Paolo e Giuseppe e, quasi sottovoce, ci diede appuntamento alle tre nel “bunkerino”, perché aveva appreso che in un noto settimanale sarebbe stato pubblicato lo scoop della collaborazione di Tommaso Buscetta, che avrebbe inevitabilmente compromesso l’esito delle nostre indagini e, soprattutto, avrebbe messo in allarme i sodali di Cosa nostra nei cui confronti, in realtà, si era divisato di emettere mandato di cattura non prima del 4 ottobre 1984.
Nel primo pomeriggio passai a prendere Paolo, che mi attendeva affacciato al balcone della sua abitazione all’ottavo piano e mi faceva ampi segni di salire a casa sua. La cara, dolce, indimenticabile Agnese chiese cosa dovessimo fare e Paolo, di rimando, con tono scherzoso, le rispose: “Non ti interessare e, per favore, preparaci il caffè”.
Quella sera Giovanni aveva fatto preparare dei panini accompagnati da birra e frutta da consumare in ufficio, perché pensavamo di trattenerci sino a tarda notte.
Verso le nove Di Lello decise di andare a casa per cenare con la sua famiglia, mentre noi restammo nei locali del “bunkerino”. Alle undici non aveva ancora fatto rientro in ufficio, così lo contattammo al telefono e apprendemmo che era andato a letto, convinto che avremmo continuato l’indomani il nostro lavoro. Il buon Ninni Cassarà mandò qualcuno a prenderlo e poco mancò che, per la fretta, Peppino rientrasse in ufficio in pigiama.
Alle tre del mattino del 29 settembre 1984 firmammo il mandato di cattura n. 323/84 RGUI nei confronti di circa 360 imputati.
Ecco, ripensando ai componenti di quel meraviglioso gruppo, mi viene facile utilizzare una metafora calcistica e definire Falcone come il nostro Maradona, Borsellino invece era una mezz’ala che sapeva dare la palla (ricordate un certo Rivera?). A me, scherzosamente, concedete invece il paragone con Gigi Riva (da sempre il mio idolo), oppure – parlando di giocatori più recenti – penso a Luca Toni, uno in grado di far salire la squadra e sostenere da solo il peso dell’attacco. Infine c’era Di Lello, uomo dalla grande visione, che rivestiva il ruolo di allenatore, capace di farci riflettere anche grazie alla sua profonda conoscenza del codice e della parte tecnica del nostro lavoro.
Eravamo tutti proiettati all’attacco, perché in quel periodo abbiamo cercato di non giocare semplicemente di rimessa, come ha sempre fatto lo Stato, reagendo con durezza solo nei momenti di emergenza. Anzi, a ben vedere, neppure in quei momenti lo Stato ha mai giocato in attacco.
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