- Molti considerano la recessione un rischio reale. Si teme che l’inflazione sia ormai fuori controllo, con il caro energia aggravato dalla guerra in Ucraina e la piena occupazione negli Usa che può innescare una spirale prezzi-salari, e che le banche centrali debbano rialzare i tassi in misura tale da provocare una caduta dell’attività economica.
- Guardando più al lungo periodo, non si tiene conto del rischio per la crescita occidentale e la stabilità dei prezzi derivante dalla crisi del modello cinese, essendo stata proprio la Cina il fattore più importante per la crescita mondiale e la bassa inflazione nell’ultimo ventennio.
- Il modello cinese è in crisi per ragioni strutturali, oltre che cicliche, e non sembra più sostenibile; ma non si capisce come si intenda rigenerarlo.
Molti considerano la recessione un rischio reale. Si teme che l’inflazione sia ormai fuori controllo, con il caro energia aggravato dalla guerra in Ucraina e la piena occupazione negli Usa che può innescare una spirale prezzi-salari, e che le banche centrali debbano rialzare i tassi in misura tale da provocare una caduta dell’attività economica.
Il mercato sconta che la Federal Reserve porterà i tassi dall’attuale 0,5 per cento al 3,3 a fine 2023; e che anche la Bce li aumenterà quest’anno di 0,75, più un altro 1 per cento nel 2023. I banchieri centrali si dicono fiduciosi di riportare i prezzi sotto controllo senza causare una recessione, ma i dubbi crescono.
Guardiamo alla Cina
Guardando più al lungo periodo, non si tiene conto del rischio per la crescita occidentale e la stabilità dei prezzi derivante dalla crisi del modello cinese, essendo stata proprio la Cina il fattore più importante per la crescita mondiale e la bassa inflazione nell’ultimo ventennio.
Il modello cinese è in crisi per ragioni strutturali, oltre che cicliche, e non sembra più sostenibile; ma non si capisce come si intenda rigenerarlo.
Il modello cinese si è basato su investimenti in infrastrutture e immobili, finanziati con tanto debito privato ma basso indebitamento del governo centrale; i consumi compressi (circa 55 per cento del Pil rispetto al 75-80 per cento dei paesi occidentali, ma anche emergenti come India); movimenti di capitale gradualmente liberalizzati, e mercati finanziari integrati con quelli internazionali, con l’obiettivo di stabilizzare lo yuan e farlo diventare valuta di riserva internazionale.
Il boom immobiliare, che nei 5 anni prima del Covid aveva visto raddoppiare i già elevati piani di investimenti, si è trasformato in una bolla che le autorità stanno cercando di sgonfiare attraverso il contenimento del debito totale (privato e pubblico), salito dal 160 per cento del 2008 al 315 per cento del Pil con la pandemia del 2020, per poi ridiscendere nel 2021 e un obiettivo di ulteriore riduzione; e il mantenimento di tassi reali ampiamenti positivi (unico caso al mondo).
Il tasso di riferimento per i mutui è stato appena limato al 4,6 per cento dopo diversi anni contro una crescita dei prezzi al consumo a marzo dell’1,5 per cento (1,8 nelle grandi città) nonostante il caro energia.
La crescita del credito totale si è così ridotta dal 16 per cento del 2016 al 9,8 attuale. Una politica efficace visto che le nuove costruzioni sono scese del 20 per cento nel primo trimestre di quest’anno e le vendite di case di quasi il 18. Ma la fine della bolla rischia di causare una crisi finanziaria.
Il fallimento di Evergrande potrebbe essere solo la punta dell’iceberg: il valore del debito estero delle società immobiliari cinesi è crollato facendone schizzare il rendimento medio al 33 per cento. Ma l’effetto ricchezza di una caduta dei prezzi degli immobili e l’impatto sull’indotto (nel complesso le stime variano dal 20 al 30 per cento del Pil) potrebbe scatenare una crisi economica.
Sgonfiare la bolla
Il governo ha chiesto alle banche di sostenere i progetti di investimento, riducendo le riserve obbligatorie e limando i tassi per spingere il credito (visto che il canale dei finanziamenti esteri si è chiuso), e agli enti locali di emettere obbligazioni per compensare la perdita di gettito derivante dalla mancata vendita dei terreni per gli sviluppi immobiliari. Così facendo, però, l’obiettivo di sgonfiare la bolla senza farla scoppiare, diventa sempre più inconciliabile con quello della riduzione del debito.
Per sostenere la crescita il Governo ha poi fatto ripartire gli investimenti infrastrutturali, sostenuti da una politica fiscale maggiormente espansiva. Ma dopo aver accumulato tanto capitale in infrastrutture, il rendimento sui nuovi investimenti rischia di essere negativo. E il finanziamento del debito pubblico è aggravato dal peggioramento del differenziale fra tassi cinesi e americani, che aveva fin qui facilitato l’afflusso di capitali esteri verso i titoli di stato in yuan, che per il decennale è passato dai 150 punti di dicembre a zero. Si pensa che la Banca Centrale potrebbe in futuro dover ricorrere per la prima volta un proprio quantitative easing.
La prospettiva di una forte divaricazione tra le politiche monetarie di Usa e Cina apre anche il problema del cambio: fino a poco tempo fa aveva favorito lo yuan, apprezzatosi dell’11 per cento sul dollaro dai massimi, una tendenza che però si è invertita con la valuta cinese che in pochi giorni si è deprezzata del 2 per cento, con una perdita di 60 miliardi di riserve valutarie (che pure rimangono oltre i 3000 miliardi di dollari).
Verso la fuga di capitali?
Il rischio di una fuga di capitali è remoto, ma da non sottovalutare. Lo evidenzia anche il crollo della borsa, con l’indice che copre i titoli maggiormente detenuti dagli investitori esteri (MSCI Cina) che in un anno ha perso il 40 per cento, contro il +6 di Wall Street. La censura e le limitazioni imposte dal governo a molte società cinesi legate a internet (ecommerce, giochi, social, streaming, fintech eccetera), e il delisting dalla Borsa americana imposto alle società legate gli apparati militari cinesi o riluttanti a fornire un’informativa completa, sono stati percepiti da molti investitori come una riaffermazione del primato del Partito Comunista sul capitale privato, il cui potere era cresciuto sull’onda dei successi in Borsa. Di qui la decisione di uscire dai titoli della Cina.
La penalizzazione delle società legate a internet non ha solo prodotto un effetto ricchezza negativo, ma aggravato il problema della disoccupazione, al 4 per cento, che però è concentrata tra i giovani laureati che vedono nel mondo legato a internet le migliori prospettive di lavoro.
Disoccupazione e crisi immobiliare sono solo due degli elementi che frenano i consumi, già compressi rispetto al resto del mondo. La politica Zero Covid è un fattore ciclico che sta facendo crollare le vendite al dettaglio (-3,5 per cento a marzo) e mette in crisi il settore dei servizi, il cui indicatore a marzo segna recessione.
Più dei lock down però, sulle prospettive della Cina incombe il disastro demografico: nel 2021 si è toccato il minimo storico di nascite (10,6 milioni) pari al 0,75 per cento della popolazione, con un tasso di natalità crollato del 30 per cento rispetto al 2019 per via della politica Zero Covid. Si stima che di qui a fine secolo la popolazione della Cina potrebbe dimezzarsi.
Le politiche demografiche di contenimento delle nascite del passato hanno creato strutture familiari cosiddette 4-2-1: due coniugi senza fratelli con 4 genitori a carico, più un figlio. Una situazione che lascia prevedere un’esplosione di domanda di spesa per welfare e sanità, creando una ulteriore minaccia ai conti pubblici e alla crescita dei consumi privati.
La domanda è tornata a crescere sostenuta dall’export ma è più un indicatore di un crollo della domanda interna che di una forte ripresa globale, peraltro in dubbio.
L’obiettivo di ufficiale di crescita del 5,5 per cento per quest’anno, comunque molto al di sotto della media del passato, sarà probabilmente mancato: le stime indipendenti variano tra il 4,3 e il 4,8 per cento. Ma è guardando più avanti che emergono tutti i limiti del modello cinese e delle attuali politiche di rilancio: troppi nodi strutturali irrisolti e incongruenze.
Fin troppo evidenti le somiglianze che emergono con le mature economie occidentali, caratterizzate da bassa crescita, elevati deficit pubblici e crisi ricorrenti. Motivo in più per guardare con preoccupazione al futuro dell’Europa.
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