A partire dalla fine della guerra di mafia, le decisioni più importanti venivano prima concertate da Riina con il ristretto gruppo di boss a lui più devoti. E, una volta individuata la soluzione, questa veniva sottoposta all’approvazione della Commissione (ovvero degli altri capi), senza che neppure avesse luogo una vera e propria discussione
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.
A livello provinciale, la relativa commissione è senza dubbio l’organo di vertice dell’associazione.
Viene composta dai capi-mandamento che a loro volta sono coordinatori di due o tre capifamiglia e ad essi sovra-ordinati.
Come ricordano tre ex esponenti di vertice della organizzazione, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e Antonino Giuffrè, la Commissione ha una “supervisione” su ogni iniziativa in seno a Cosa Nostra ed è chiamata a “guidarla al meglio”. Per tale motivo, è competente a decidere in merito a tutte le questioni che involgano interessi generali dell’organizzazione, come pure per la gestione di affari di grande rilevanza economica (come un grosso traffico di stupefacenti) e non riducibili ad un affare interno ad una singola famiglia; o per concordare le regole da osservare nella gestione di attività illecite di comune interesse, come per le modalità di controllo e spartizione degli appalti pubblici o di imposizione delle tangenti.
Stabilisce persino l’orientamento politico del “popolo” di Cosa Nostra in occasione di tornate elettorali.
In questo senso, il collaboratore Antonino Giuffrè rievoca una riunione della Commissione vissuta in prima persona, quale capomandamento di Caccamo, qualche settimana prima delle elezioni politiche del 1987. Il ricordo è nitido trattandosi della prima presenza del Giuffrè in quell’organismo. Ebbene, proprio in quella occasione, “Totò” Riina diede indicazione di votare per i candidati del P.S.I. . E di conseguenza lo stesso Giuffrè portò questa notizia al suo paese, con l’ammonimento a non appoggiare più nessun candidato democristiano: il che suscitò non pochi malumori.
La Commissione funziona anche come “tribunale” di Cosa Nostra.
Ha il monopolio nella soluzione delle controversie all’interno della associazione. Sventa i pericoli di una disgregazione interna derivanti da un potenziale esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
E’ chiamata a comporre i contrasti insorti tra famiglie appartenenti a mandamenti diversi. Decide o ratifica l’adozione di qualsiasi sanzione nei riguardi di affiliati. Esprime il “previo assenso” quando un “uomo d’onore” viene accusato di fatti talmente gravi che prevedono come sanzione la “pena di morte”.
La Commissione, in questo modo, funge da organo di garanzia per i singoli associati. A ciascuno di loro è (almeno teoricamente) offerta la possibilità di discolparsi da eventuali accuse o
sospetti che potrebbero anche condurre alla soppressione.
Come ha spiegato all’autorità giudiziaria un ex affiliato, Francesco Paolo Anzelmo, l’introduzione della regola si era resa necessaria perché in precedenza “il capo mandamento, se uno ci faceva antipatia, a questo punto se lo poteva liquidare senza dare conto e ragione a nessuno”.
Un omicidio debitamente autorizzato può e deve essere accettato almeno quanto basta per dissuadere da ulteriori ritorsioni e vendette. Lo ricorda molto efficacemente Salvatore Cucuzza ai giudici di Palermo: “la Commissione ha deciso che tutti i casi di uomini d’onore dovevano
passare per le loro mani, così da evitare che qualcuno si facesse giustizia da sé, magari...non in regola con Cosa Nostra”.
E’ riservata alle competenze della Commissione anche la deliberazione dei c.d. “omicidi eccellenti”. Sono quelli di interesse strategico perché in danno di appartenenti alle Forze dell’ordine, magistrati, avvocati, giornalisti, ma anche grossi imprenditori e comunque personalità di rilievo nel mondo delle istituzioni o dell’economia e della finanza. In ragione del ruolo e della personalità della vittima, sono quelli che espongono maggiormente l’associazione alla rappresaglia da parte degli apparati repressivi dello Stato, o alle violente ripercussioni in seno all’opinione pubblica, cui l’intera organizzazione può trovarsi esposta.
Prima dello scatenarsi della guerra di mafia, è la commissione provinciale a decidere una strage di personaggi di primissimo piano nelle istituzioni. Il primo fatto eclatante, risalente al 1979, coincide con l’omicidio del giudice Cesare Terranova, che dopo essere stato eletto nel liste partito del Partito comunista e aver partecipato ai lavori della Commissione parlamentare antimafia era tornato in magistratura. Segue tra i magistrati, a Palermo, Gaetano Costa nel 1980. E non mancano vittime tra gli esponenti politici, come Piersanti Mattarella, presidente della Regione, nel 1980 e Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista nel 1982. Si aggiungano gli uomini delle forze dell’ordine: il vicequestrore Boris Giuliano, gli ufficiali dei carabinieri Russo e Basile, e Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale nominato nel 1982 prefetto di Palermo.
Confessando le sue responsabilità per avere fatto parte del “gruppo di fuoco” che ha assassinato nel marzo del 1992 l’onorevole Salvo Lima, Francesco Onorato ha chiarito alla magistratura l’ulteriore motivo a fondamento della regola di competenza della Commissione per l’omicidio “eccellente”.
Il killer ha detto che doveva esservi la massima condivisione possibile all’interno di Cosa Nostra per iniziative talmente gravi che avrebbero provocato reazioni suscettibili di ricadere negativamente su tutti i membri dell’organizzazione, evitando, in questo modo, che qualcuno dei capi potesse rinfacciare agli altri di aver dovuto pagare il conto di decisioni altrui.
Le dinamiche del massimo consesso dei capi di Cosa Nostra, tuttavia, registrano anche momenti di deficit di autorità e autonomia. Accade nel momento in cui Riina Salvatore, con il supporto di Provenzano Bernardo, assume un ruolo preponderante nell’ambito dell’associazione.
A partire dalla fine della guerra di mafia (1982), le decisioni più importanti venivano prima concertate da Riina con il ristretto gruppo di boss a lui più devoti. E, una volta individuata la soluzione, questa veniva sottoposta all’approvazione della Commissione (ovvero degli altri capi), senza che neppure avesse luogo una vera e propria discussione.
Rievocando la sua personale esperienza come capo del mandamento di Caccamo, Giuffrè espone ai magistrati di Palermo che “le decisioni più importanti non venivano nemmeno discusse in seno a tutta l’assemblea della commissione provinciale ma appositamente in quel gruppo ristretto di cui io in precedenza mi sono permesso di ricordare”.
C’era anche a parziale giustificazione di questa prassi un serio problema di segretezza delle decisioni più delicate e di cautela contro il rischio di nuovi pentimenti. Come ricordato da Giuffrè, Riina si doleva spesso delle fughe di notizie su discussioni che esigevano il massimo riserbo : “è mai possibile che tutte le volte che noi quando qua discutiamo di qualche cosa, l’indomani gli sbirri sono a conoscenza di tutto?”.
L’azione combinata di questi due fattori - e cioè la tendenza accentratrice di Riina in una al ruolo preminente accordato al gruppo selezionato dei suoi fedelissimi e le esigenze di segretezza – fece sì che sin dalla seconda metà degli anni ottanta “spesso e volentieri non si parlava di fatti di una certa gravità nel contesto pubblico di questa Commissione”.
Insomma, il tasso di effettiva collegialità delle decisioni del massimo organo deliberante di Cosa Nostra palermitana andava scemando già a partire dal 1983. Ma, almeno formalmente, la decisione sulle iniziative omicidiarie da intraprendere era poi rimessa ad una decisione di tale organismo, o sottoposta al suo assenso, così da impegnare comunque la responsabilità dei suoi componenti.
Naturalmente il fatto che Cosa Nostra voglia “vestire i panni” di un sistema giuridico non significa però che essa riesca a disciplinare tutte le relazioni al suo interno rispettando le sue regole.
Come ricordano gli storici, la violazione o l’uso strumentale della norma appartengono alla realtà di sistemi politici ben più complessi di Cosa Nostra; e sarebbe paradossale ritenere che i capimafia abbiano una “etica pubblica” più alta dei loro omologhi dell’ordinamento legale dello Stato.
In effetti, le pretese “legalitarie” di Rotolo espresse nel faccia a faccia con Sandro Mannino non si presentano come una eccezione alla logica delle convenienze individuali.
Anche Rotolo, come altri “uomini d’onore” in passato, raffigura se stesso e i suoi amici come uomini saggi che applicano le regole, che cercano la mediazione, che usano la violenza solo come ultima ratio per assecondare le delibere razionali e ponderate della organizzazione. Nel contempo dipinge Totuccio Inzerillo e i suoi sodali come individui infidi, in dissidio con tutto il mondo, irrispettosi delle stesse leggi della associazione, che uccidono per nulla.
Il capo di Pagliarelli invoca il rispetto delle “leggi”, ma è lui il primo a violarle. Ad un certo punto, inizia a programmare con i sodali più fidati una serie di omicidi non autorizzati e condiziona pesantemente e indebitamente la successione al comando di mandamenti a cui lui non appartiene, quali Porta Nuova e Boccadifalco-Passo di Rigano.
Insomma è lui a cedere alla logica del bellum omnium contra omnes che incombe sempre su ogni regola di Cosa Nostra, fomentata dai sogni di dominio del leader di turno.
In realtà, famiglie e mandamenti sono divisi al loro interno. Più che ragionare sulla base dell’ordinamento giuridico mafioso ci si orienta ormai per “coalizioni” di fatto. Quella che si riconosce in Nino Rotolo e quella facente capo a Lo Piccolo. Proprio come alla vigilia della seconda guerra di mafia, quando da una parte c’erano Inzerillo e Bontade e dall’altra Riina. E come dopo la cattura di quest’ultimo, nel 1993, quando si fronteggiavano “ideologicamente” il blocco capeggiato da Bernardo Provenzano, con Pietro Aglieri, Carlo Greco, Antonino Giuffrè, Benedetto Spera e altri e la fazione il cui leader Leoluca Bagarella veniva affiancato da Giovanni Brusca, dai Vitale di Partinico e dai Graviano di Brancaccio.
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