Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.


Non ci sono più le grosse riunioni collegiali dove tutto il “gotha” rischia di essere sorpreso dalle forze dell’ordine o dagli avversari.

Secondo le fonti del processo, è dall’inizio degli anni novanta che la commissione provinciale non si riunisce più in assemblea plenaria. Alcuni dei suoi componenti ancora in libertà si incontrano informalmente in piccoli gruppi, solo quando devono prendere una decisione su un argomento importante.

Diventano desuete, anzi nella prassi si sgretolano, le norme che assicurano la struttura verticistico-piramidale della organizzazione. Non si convoca la commissione provinciale e non si procede alla sostituzione dei componenti impossibilitati a parteciparvi. Non si rispettano le rigide indicazioni sulle modalità e sui criteri di elezione dei rappresentanti delle famiglie e dei mandamenti e sulle procedure di decisione degli omicidi interni o di politiche fondamentali per Cosa Nostra.

Probabilmente è anche venuta meno la ragione profonda della antica forza della commissione risalente agli anni settanta. A quel tempo la necessità di renderla efficiente era dettata da motivi soprattutto di natura imprenditoriale. L’inserimento di Cosa Nostra nel mercato internazionale della droga richiedeva un forte mutamento strutturale.

Quella attività implicava l’impiego di notevoli risorse umane anche in aree territoriali sottratte al controllo delle singole famiglie interessate.

Vi era, quindi, la necessità di un collegamento più stretto tra le stesse famiglie. In seguito quella esigenza viene meno, per le diverse scelte strategiche e di mercato dei capi della organizzazione.

Da allora, progressivamente si indebolisce il peso della commissione e la sua funzionalità. Una tale situazione avrebbe dovuto favorire formule organizzatorie di tipo confederativo, con una pluralità di cosche sparse nel territorio, dotate di sufficiente autonomia. D’altronde, a seconda delle diverse contingenze storiche, Cosa Nostra ha adottato forme strutturali ora più centralizzate e coordinate ora più decentrate e flessibili.

Eppure, nonostante l’attuale sterilità della commissione, l’associazione diventa sempre più centralizzata e piramidale, con le decisioni nelle mani di pochissimi. L’ampiezza e la discrezione dei leaders delle “coalizioni”, che nel frattempo si sono formate, crescono in maniera rilevante.

Dimenticando la sua consueta prudenza, Provenzano esplicita la situazione senza mezzi termini. Lo fa dicendo a Nino Rotolo che, su una questione fondamentale per l’associazione come il rientro in Italia degli Inzerillo, devono essere solo loro due e Lo Piccolo ad assumere le decisioni, indirettamente esautorando la commissione.

Ma il peso decisivo delle leadership e, quindi l’aggiramento della “costituzione in senso formale” di Cosa Nostra, si coglie in particolare dalle dinamiche interne ai mandamenti, al modo in cui si individuano i relativi capi e, in particolare, dai metodi di elaborazione del programma di contrasto a Lo Piccolo e agli Inzerillo messo in campo da Rotolo.

In questo senso il boss di Pagliarelli rispolvera il manuale per la conquista del potere scritto a suo tempo da Salvatore Riina. Quest’ultimo, in effetti, aveva puntato moltissimo sulla manipolazione delle regole relative alla nomine dei “reggenti”, ossia di capi temporanei, per sospendere le leadership sgradite o non in sintonia con le sue mire espansionistiche.

Come ricorda Leonardo Messina, Riina sovvertì il criterio democratico di nomina dei capi, piazzando i suoi uomini a tutti i livelli. E arrivò fino al punto di spezzare la divisione tradizionale del territorio tra famiglie mafiose palermitane e di creare un nuovo grande mandamento a capo del quale pose uno dei suoi protetti, Raffaele Ganci, “rappresentante” della famiglia palermitana della Noce.

Politica delle nomine dei reggenti e diverso modo di concepire la distribuzione delle famiglie nei mandamenti sono due aspetti che riaffiorano nell’antagonismo tra Lo Piccolo e Rotolo. Sul secondo dei due profili segnalati basta mettere a confronto il foglio dattiloscritto trovato in possesso del Lo Piccolo con il contenuto dei dialoghi tra Rotolo e i suoi più stretti alleati.

Ad esempio la composizione del mandamento della Noce è diversa.

In essa, nelle conversazioni intercettate nel residence di viale Michelangelo, non rientra la famiglia di Altarello di Baida che va a confluire nel mandamento di Boccadifalco, verosimilmente per mutare le maggioranze di quella articolazione territoriale. Inoltre, muta la toponomastica. Lo Piccolo indica mandamenti con nominativi più simili a quelli antecedenti alla guerra di mafia degli anni ottanta. Per Rotolo invece rimane valido l’assetto forgiato da Riina.

Sulla politica delle nomine dei reggenti del mandamento, sono significative le vicende del mandamento di Porta Nuova e, ancor più, quella di Boccadifalco-Passo di Rigano.

Il controllo di Porta Nuova è strategico, per l’importanza economico finanziaria del mandamento. Non a caso quel territorio, a suo tempo, Riina lo aveva voluto assegnare al fidato “cassiere della mafia” Pippò Calò, stravolgendo le articolazioni precedenti. Si tratta di una zona di Palermo su cui insistono tre storici mercati cittadini, “Ballarò”, “Capo”, “Vucciria“, e il porto della città. Ogni anno su quella area sorgono una miriade di attività commerciali di varia dimensione, da sempre nel mirino delle cosche non solo in una ottica parassitaria di richiesta del “pizzo” ma anche per l’aspirazione ad infiltrarsi nelle tante opere di ristrutturazione dei molti antichi edifici ubicati in quella zona del capoluogo siciliano.

Rotolo ha la necessità di “mettere le mani” su quel mandamento. Deve irrobustirsi finanziariamente e costruire un’altra “base” in vista dello scontro decisivo.

Nel maggio del 2005 giunge la notizia che l’anziano boss Agostino Badalamenti versa in precarie condizioni di salute. Il momento è propizio per intervenire, nonostante quella vicenda non sia di sua competenza. Inizia a manovrare abilmente le sue pedine per la ristrutturazione dell’assetto di vertice del mandamento, assieme all’alter ego Gianni Nicchi.

Vuole un reggente temporaneo a lui gradito e da lui agevolmente manovrabile. Lo individua in Nicola Ingarao. Ma Nicola non è il più anziano. Secondo le regole gerarchiche la carica spetterebbe a Giovanni Lipari, soprannominato “u viecchiu, u tignusu, u varvieri”.

Alla riunione per il “passaggio delle consegne” sono tutti “parlati”, tranne ovviamente Lipari. Il regista occulto è Rotolo. Ha dato ordini precisi ad alcuni di Porta Nuova: Nunzio Milano, Nicolò Milano, Salvatore Gioeli, Salvatore Pispicia. E manda alla riunione anziani “uomini d’onore” (Michele Oliveri, Settimo Mineo, Gaetano Badagliacca e Giuseppe Cappello) per la presentazione del “suo uomo” (Rotolo).

Non ci sono sorprese. Alla fine il reggente sarà Nicola Ingarao. Ingarao che poi nel luglio del 2007 verrà assassinato a colpi di arma da fuoco davanti ad un commissariato di Palermo, probabilmente per quella nomina avvenuta senza il rituale “confronto interno” tra gli esponenti delle famiglie di Palermo Centro, Porta Nuova e Borgo Vecchio.

Una altra nomina di reggente impropriamente eterodiretta da Nino Rotolo è quella che riguarda il mandamento di Boccadifalco-Passo di Rigano. La carica di capo spetterebbe ancora a Salvatore Buscemi Salvatore, subentrato, a suo tempo con il gradimento di Riina, al defunto Salvatore Inzerillo. Ma Buscemi è detenuto, e la reggenza la tiene Vincenzo Marcianò. Rotolo non si fida. Vincenzo Marcianò ha contatti con Lo Piccolo ed è quello della lettera a Provenzano in cui si dice che le famiglie del suo mandamento sono tutte d’accordo per il “ritorno degli esiliati”.

Sono motivi sufficienti per destituirlo e affidare la reggenza ad un altro “uomo d’onore”.

Ancora una volta, tutto avviene senza la regolare consultazione tra i componenti delle varie famiglie. E’ Rotolo, proveniente dal mandamento di Pagliarelli, che segretamente muove i fili del “cambio” al vertice di Boccadifalco.

Prima denigra Vincenzo Marcianò nelle conversazioni private con Franco Bonura, Giuseppe e Gaetano Sansone, Giovanni Sirchia che hanno voce in capitolo sulle vicende del mandamento. Poi, dopo avere lui stesso creato le condizioni per l’avvicendamento, comincia a sondare le indicazioni per la successione e ad individuare i potenziali interessati. Quindi, sempre in riunioni informali, comincia a dettare modi e tempi per la nomina del nuovo reggente.

Convoca Franco Bonura, proponendogli la carica. Verificata la sua indisponibilità, si rivolge anche a Giuseppe Sansone. Alla fine, però, opta per Giovanni Marcianò, fratello di Vincenzo. È una soluzione accorta. In apparenza non può essere interpretata come una frattura con il passato, e soprattutto non costituisce un motivo di umiliazione in termini mafiosi per la famiglia Marcianò, che rimane una delle più rappresentative nell’ambito della organizzazione. L’importante è che Giovanni prenda ordini da lui, da Rotolo.

Nella riunione del 8 settembre 2005, nei locali della Immobiliare Raffaello a Palermo, alla presenza di Vincenzo Marcianò, Giuseppe Sansone, Gaetano Sansone e Franco Bonura viene assunta la decisione. Giovanni Marcianò è investito della reggenza del mandamento. Dopo la destituzione, Vincenzo a denti stretti sibila: “picciotti io da voi accetto tutte cose”.

Il codice di Cosa Nostra è stato ancora una volta aggirato. Sono gli effetti della “guerra fredda” tra Rotolo e Lo Piccolo per la conquista dello scettro del comando. D’altronde Lo Piccolo non esita a nominare in modo “illegittimo” Salvatore Davì a capo della famiglia di Partanna Mondello.

Insomma, anche l’ordinamento mafioso nei momenti di profonda crisi cede alla logica dello “stato di eccezione”, che sospende tutte le regole. O meglio sono i rapporti di forza a dettare le regole. Necessitas legem non habet.

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