Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo il libro “L'illegalità protetta”, edito per la prima volta nel 1990 e ristampato nuovamente da Glifo Edizioni, dedicato a Rocco Chinnici e ai giudici del pool antimafia


Ho riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria e in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo.

Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall’interno, come poi fu possibile nella stagione dei «pentiti».

Eppure, la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 (è questo l’anno di ben tre dei quattro scritti pubblicati) di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali. Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga e i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti a un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze e ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla connivenza.

Eppure, né la generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla connivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, la «religione del lavoro». gli era divenuto, alla fine degli anni ’70, dirigente dell’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo.

E proprio in quegli anni divampò la così detta «guerra di mafia» e si verificarono, non i primi, ma sicuramente i più clamorosi delitti eccellenti. capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini, nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza.

Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto «pool antimafia». Ci prospettò lucidamente le difficoltà e i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: poiché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla «palude» al nostro lavoro. Credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i «suoi» giudici.

Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno, pur avendo una personalità completamente diversa dall’altro, ma animato da eguale tensione morale e spirito di sacrificio.

Un sereno spirito di sacrificio animò sempre la vita di Rocco Chinnici, il quale non cessò mai di essere consapevole, molto più di quanto sia ragionevole credere, dell’altissimo rischio personale connesso alla sua attività. Egli «sapeva» che la stessa sua vita era un pericolo per le organizzazioni mafiose e i loro fiancheggiatori, e quindi ben presagiva la sua fine. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di spazzar via le sue conoscenze e la sua volontà di riscatto, e lucidamente non si stancò mai di trasmettere le une e infondere l’altra sia ai suoi più stretti collaboratori sia a chiunque con cui venisse in contatto. E ciò faceva quasi affannosamente, pressato dall’urgenza dei tempi, poiché sentiva montare attorno a lui la minaccia che già aveva prodotto i suoi tragici effetti con Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa, le cui uccisioni lo avevano profondamente addolorato ma non impaurito né demotivato. Chi gli visse accanto in quell’ultimo tragico anno della sua esistenza sa con quale impegno e abnegazione, giorno e notte, con orari impossibili, continuò a lavorare nell’istruzione di quel procedimento, allora detto «dei 162», che costituì l’embrione iniziale del primo maxiprocesso alle cosche mafiose, oggi giunto alla sua seconda verifica dibattimentale. Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebbene talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia

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