Il lavoro quotidiano di scorta, comunque, lo pianificavo e lo eseguivo con scrupolo, per quanto mi era possibile: cambiare itinerari, sfalsare orari, evitare di dare troppo anticipo nelle comunicazioni telefoniche, ma più di questo, obiettivamente, non si poteva fare, e dopo i primi giorni affrontai il discorso proprio con Mannoia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.
Con qualche perplessità prendiamo posto sul camper. Sono il capo scorta e mi metto di fianco a Franco che lo guida, o meglio intavola trattative non sempre pacifiche con lo sgraziato e pesante veicolo per convincerlo a riportarci in ufficio. Nicola e Totò, gli “anziani” che mi hanno affiancato per l’occasione, si sistemano dietro, con Marino Mannoia.
Nicola si accende una sigaretta, mentre Totò, cullando in braccio il suo M12, si sistema in precario equilibrio su una sedia da ufficio, di quelle con le ruote, che ha posizionato tra la parte furgonata e lo spazio anteriore: due pessime iniziative, davvero incaute!
Poche centinaia di metri e i tre seduti dietro iniziano a dare evidenti segni di malessere: tra il fumo della sigaretta, subito spenta ma ristagnante, la mancata ventilazione, l’effetto distorcente dei vetri blindati uniti al beccheggio del mezzo, e nonostante la velocità più che moderata, da dietro mi arriva un crescente coro di lamentele. Apriamo tutto ciò – poco – che è possibile aprire, Totò abbandona la sedia, mi affida l’M12 che nascondo ai miei piedi e ci raggiunge davanti, dove si accascia su uno strapuntino.
Di domenica, per fortuna, le strade sono sgombre, per quanto possano esserlo le strade romane in una mattinata di ottobre, e arriviamo in ufficio. Mannoia durante il percorso non si è mai lamentato, ma appena sceso, prima ancora di arrivare all’ingresso, mi chiede, pallido e preoccupato, se abbiamo davvero intenzione di rientrare con lo stesso mezzo.
Glielo escludo (e tra me penso che se qualcuno si oppone posso sempre invocare i motivi di sicurezza e l’opportunità di diversificare i mezzi tra l’andata e il ritorno), e i visi e le espressioni di Totò e Nicola mi confortano sulla saggezza della decisione: tutti e due dichiarano solennemente che non ripeteranno l’esperienza.
Penso che dopo tutto la mia Dyane è sempre parcheggiata fuori e già conosce la strada, e se la riservatezza è quella che conta, allora portare un detenuto ad altissimo rischio a spasso su una Dyane sarebbe una soluzione non disprezzabile. Appena entrato in ufficio, accompagno Mannoia fino alla porta dell’ufficio di De Gennaro, dove è già arrivato il giudice Giovanni Falcone.
Lo avevo già incrociato in altre occasioni, a Roma, sempre lì in ufficio, ed è la prima volta che lo vedo così da vicino, dopo averne tanto sentito parlare, ma neanche mi guarda, sembra impaziente ed è concentrato su Mannoia. Deposito le armi lunghe nell’armadio corazzato e mi organizzo per il ritorno.
Ma c’è tempo: sarà una lunga domenica di attesa, dopo aver riportato Mannoia a Casal del Marmo a tarda sera, tornerò verso le undici in ufficio, e a casa poco prima della mezzanotte. Come inizio non c’è male, mi dico, ma il ritorno almeno lo abbiamo fatto con una Fiat Croma blindata e senza problemi: Mannoia si è lamentato per il mal di testa e ha chiesto se è possibile procurargli della Novalgina, in vista dei successivi impegni. […].
Un lavoro meticoloso
Il lavoro quotidiano di scorta, comunque, al di là di ogni considerazione sulla sopravvalutazione dei rischi che in cuor mio pensavo avessero fatto tanto Manganelli quanto Falcone, lo pianificavo e lo eseguivo con scrupolo, per quanto mi era possibile: cambiare itinerari, sfalsare orari, evitare di dare troppo anticipo nelle comunicazioni telefoniche, ma più di questo, obiettivamente, non si poteva fare, e dopo i primi giorni affrontai il discorso proprio con Mannoia.
Signor Mannoia, – esordii – ormai è diversi giorni che facciamo questa vita, ha visto le nostre tecniche e le nostre abitudini… lei è stato un sacco di tempo dall’altra parte, ma adesso se succede qualcosa succede a tutti… perciò se ha consigli, se ha suggerimenti, se ha perplessità, non si faccia scrupolo a parlarne e se ne discute insieme, per la sicurezza di tutti.
Quel giorno credo di essermi guadagnato qualche punto di fiducia, dimostrando ragionevolezza e rispetto per il “nemico”, e tra l’altro il suo parere tecnico mi interessava davvero, specie dopo aver letto il verbale in cui proprio Mannoia aveva raccontato di quando Cosa nostra aveva pianificato l’attacco alla caserma di polizia di Palermo, dove qualche anno prima era stato momentaneamente custodito Salvatore Contorno Salvatore “Totuccio” Contorno era un altro “pentito” di Cosa nostra della cui gestione e protezione si era occupato il nostro Ufficio; uomo d’onore, schierato con i cosiddetti perdenti nella guerra di mafia che aveva attraversato la provincia di Palermo e non solo quella, si era alla fine deciso a collaborare con la giustizia, aggiungendo le sue dichiarazioni a quelle di “Masino” Buscetta, il pentito per antonomasia.
Anche lui, come Buscetta, aveva avuto numerosi familiari ammazzati, e quando era stato fatto scendere a Palermo per dare indicazioni su luoghi e persone era stato scortato da personale del nostro Ufficio, ma la cosa evidentemente era trapelata, tanto che Cosa nostra si era determinata a dare l’assalto al Commissariato di San Lorenzo, con quella che doveva essere una vera e propria azione di guerra, alla quale non era stato dato corso solo perché alla vigilia dell’attacco Contorno era stato trasferito altrove.
Mannoia espresse grande considerazione per le capacità di guida di Franco e degli autisti che si alternavano nell’Alfa 33 di appoggio, apprezzò l’attenzione che tutti noi ponevamo durante ogni spostamento, quando per tutto il tragitto non si pronunciava neppure una parola che non fosse strettamente necessaria, ma aggiunse che capacità e attenzione non sono sufficienti se si accompagnano alla ripetitività dei comportamenti e delle procedure, e soprattutto se viene meno la riservatezza.
Parole sagge, anche troppo, che ho tenuto a mente fino all’ultimo giorno del mio servizio in Polizia. Già, la riservatezza: difficile comprenderne il significato, operando in una struttura pubblica, dove l’organizzazione delle competenze è talmente frammentata che per risolvere qualsiasi problema hai la necessità di rivolgerti ad almeno quattro uffici differenti, nei quali trovi zelanti burocrati che pretendono di conoscere per filo e per segno i motivi di ciascuna richiesta, ma per fortuna il Nucleo centrale anticrimine, sotto questo profilo, godeva di ampio credito.
Era una specie di longa manus del capo della Polizia, e un po’ per questo, un po’ per l’aura vagamente misteriosa che lo accompagnava, alcune pratiche logistiche potevano essere svolte senza la necessità di fornire troppe spiegazioni. Così, per noi, tanto per fare un esempio, sui moduli da riempire per il rifornimento delle autovetture le voci “itinerario” e “motivo del servizio” si risolvevano per prassi con la parola Riservato, in barba a chilometriche circolari che ne disciplinavano minuziosamente la compilazione. […].
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