La strage in cui perse la vita il consigliere Chinnici è un delitto politico-mafioso. Non si spiegherebbero altrimenti i ritardi, le contraddizioni delle indagini, i depistaggi, gli scoop giornalistici che alzano polveroni, l’ingresso in scena di faccendieri, confidenti e doppiogiochisti che hanno determinato il sostanziale fallimento dell’inchiesta fin qui portata a termine dalla magistratura
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci de “L’illegalità protetta”, il libro edito per la prima volta nel 1990 e ristampato nuovamente da Glifo Edizioni, dedicato a Rocco Chinnici e ai giudici del pool antimafia
Parlando di mafia, Chinnici richiamava spesso l’attenzione dell’interlocutore sui collegamenti politici ed economico-finanziari delle cosche; aveva più volte pubblicamente ribadito la necessità di affrontare la lotta alla mafia con il taglio giudiziario nuovo e penetrante delle indagini patrimoniali, che avrebbero aperto nuovi spiragli di verità e avrebbero consentito di individuare i canali preferenziali del riciclaggio di denaro proveniente dal traffico degli stupefacenti.
Oggi, dopo la sua morte e a conclusione del primo grande processo a Cosa Nostra, sappiamo che il consigliere istruttore aveva individuato precise responsabilità a carico di alcuni nomi di prestigio della ricca borghesia imprenditoriale isolana: responsabilità proprie di alcuni uomini, ma così strettamente intrecciate con altre, apparentemente distanti, da costituire un articolato sistema di potere in cui gli interessi di ciascun soggetto non potevano che risultare interdipendenti rispetto a quelli di un’intera classe politica dirigente dell’epoca.
Quella stessa che oggi, come se nulla fosse cambiato, occupa il potere alla Regione, negli Enti pubblici, nelle banche e in ogni altra sede in cui ciò può risultare privatamente remunerativo. Per questo, oggi diciamo che la strage in cui perse la vita il consigliere Chinnici è un delitto politico-mafioso. Non si spiegherebbero altrimenti i ritardi, le contraddizioni delle indagini, i depistaggi, gli scoop giornalistici che alzano polveroni, l’ingresso in scena di faccendieri, confidenti e doppiogiochisti che hanno determinato il sostanziale fallimento dell’inchiesta fin qui portata a termine dalla magistratura.
Sulla strage di via Pipitone Federico, così come sull’omicidio di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e di Giuseppe Insalaco, è calata una cappa di impunità apparentemente impenetrabile.
Che succede? I nostri apparati investigativi sono tanto inetti da non riuscire a produrre alcunché di significativo?
La magistratura non ha il coraggio necessario per procedere innanzi? C’è, forse, una soglia che nessuno vuole varcare? Non lo crediamo. O, almeno, non lo crediamo fino in fondo.
Capiamo, però, che oggi è più debole l’impegno complessivo dello Stato nello scontro col sistema di potere mafioso e, di conseguenza, più deboli sono le motivazioni e lo slancio degli uomini delle istituzioni impegnati su questo difficile versante.
Si è indebolita, insomma, la spinta all’azione; quella che – appena qualche anno addietro – portò il «pool» inventato da Chinnici a sferrare uno dei più penetranti attacchi che la storia giudiziaria ricordi, fin dentro il fortino di Cosa Nostra; quella che è venuta lentamente meno, grazie alla strategia politica messa in atto da una composita maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura, grazie ai trasferimenti, alle nomine e ai provvedimenti disciplinari deliberati ad hoc per colpire gli uomini migliori; grazie agli attentati al tritolo, alle minacce, alle lusinghe, alle sollecitazioni nei confronti di uomini coraggiosi, rimasti improvvisamente soli davanti a una macchina del potere capace di stritolarli. n questi mesi, però, fuori dal Palazzo di Giustizia, è accaduto dell’altro.
C’è stata una crescita civile della gente, dei cittadini, tra i quali si è diffusa una nuova consapevolezza del rapporto esistente tra potere e responsabilità; così, se finora ai magistrati si offriva un contributo di solidarietà incondizionata, oggi le cose sono mutate e, in cambio del consenso, si chiede loro di sottostare a un giudizio di responsabilità etico-professionale più rigoroso che nel passato.
Oggi più di ieri, la società civile vuole verità e giustizia, vuole conoscere i nomi dei carnefici della democrazia e le circostanze che li hanno resi segreti o sconosciuti fino ad ora.
Per questo, Rocco Chinnici non ha lavorato invano. Senza indulgere in retorica, si può dire che, da giudice e da uomo, ha lasciato un segno tangibile nella storia della gente, nella nostra città e nel nostro Paese.
Un sentito ringraziamento alla rivista «Segno» e al suo direttore Nino Fasullo per aver messo a disposizione gran parte del materiale raccolto nel presente volume. l nostro riconoscimento va anche alla famiglia del consigliere istruttore Chinnici per aver fornito un contributo inedito e per aver gentilmente collaborato alla realizzazione del volume.
Francesco Petruzzella / Palermo, gennaio 1990
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