Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Un giorno giunsi a Catania e vi restai per sempre. Accadde molti anni fa. Ora io sono diventato profondamente catanese, i miei figli sono nati e cresciuti a Catania, qui ho i miei pochissimi amici ed i molti nemici, in questa città ho patito tutti i miei dolori di uomo, le ansie, i dubbi, ed anche goduto la mia parte di felicità umana.

Io amo questa città con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente, sa che è puttana, è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, volgare, prepotente, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell’amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso «Al diavolo, zoccola!», ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempie l’animo di oscurità.

Quel giorno che giunsi a Catania accaddero alcune cose che mi dettero immediatamente una sensazione stupefacente di questa città. Ero matricola in giurisprudenza e cercavo la segreteria della facoltà che allora era spostata presso l’osservatorio. Così giunsi ad un palazzo con una piccola scala di marmo, salii un’altra scala e, alla ricerca di chi mi potesse dare informazioni, aprii un uscio.

C’era di là una sala ad emiciclo, deserta, e nel mezzo della sala, su un lettino di ferro un uomo che dormiva a pancia all’aria, con un lenzuolino tirato fin sulla faccia. In punta di piedi riguadagnai l’uscio e, trattenendo il fiato, stavo per richiudere la porta, quando si aprì un usciolo giù in fondo e venne avanti un ometto vestito di bianco, con un berrettino bianco, una cicca all’angolo della bocca, proprio un ometto vecchio, con la barba grigia, una faccia triste e malandrina, e un secchio in mano.

Arrivò all’uomo che dormiva e lo scoprì: era completamente nudo, poteva avere trent’anni, magro, un po’ calvo. L’ometto fece una cosa rabbrividente: prese la cicca e gliela posò sul ventre, proprio dentro l’ombelico. Io feci un gemito aspettando che il dormiente si svegliasse con un ululato e balzasse ritto. Invece non si mosse.

Allora l’ometto posò il secchio a terra, prese un enorme coltello e con un sospiro lo piantò nel petto dell’uomo che dormiva, in un baleno lo squarciò fino alla gola, poi lo afferrò per i capelli e con un colpo solo gli tagliò la testa. Io svenni per tre secondi, rifeci carponi tutto il corridoio deserto, lamentandomi e camminando come un cane, nel terrore che quell’ometto con il secchio raggiungesse anche me.

Sul portone qualcuno mi spiegò che ero andato nell’aula di medicina legale dove si stava preparando una autopsia e che la segreteria della giurisprudenza era stata trasferita di nuovo al palazzo centrale di piazza Università. Quello stesso giorno andai al teatro Diana dove c’era una compagnia di avanspettacolo con il comico Trottolino, otto ballerine che ballando prendevano a calci gli spettatori che tentavano di salire sul palcoscenico, e infine una cantante partenopea la quale iniziò: «A gentile richiesta…»

Si scatenò un clamore terribile, ognuno chiedeva una canzone, io gridavo pure «Anema e core, anema e core…!» un uomo con i capelli rossi, vicino a me gridava «Munasterio ‘e santa Chiara, Munasterio ‘e santa Chiara!», poiché insistevo l’uomo con i capelli rossi si alzò e mi dette un terribile cazzotto, dall’alto in basso, che quasi mi incastrò la testa fra le spalle, io gli detti un calcio ai genitali, una trentina di persone attorno a noi ci divisero e ci percossero contemporaneamente, continuando a gridare «Dove sta Zazà», «Ciccio Formaggio!»

Allora il ministro degli interni era Scelba e la polizia aveva i manganelli, presi anche sei o sette randellate, mi stracciarono a metà l’impermeabile bianco comperato due giorni prima e che mia madre mi aveva consegnato come una reliquia: «Tuo padre non ha fumato per due mesi! Ricordatelo!» Quella stessa notte, essendo io ospite precario di una lontana parente di mia zia, in un basso della salita di Sangiuliano, che aveva il gabinetto in fondo al cortile, rimasi prigioniero per tutta la notte dentro il cesso. Mi ero convinto che la porta si apriva tirandola verso l’interno e stetti tutta la notte tirando, ansimando, due volte mi misi a piangere, alla fine chiesi aiuto.

Era l’alba e venne un maresciallo di questura con i baffi bianchi il quale prima si affacciò alle grate del finestrino, fissandomi in silenzio. Si svolse una breve conversazione fatta di sguardi immobili: «Cosa fai lì dentro?» «Sono rimasto chiuso!» «Perché?» Io non sapevo come spiegare e dissi semplicemente: «Io non sono catanese!» Allora il vecchio maresciallo fece un sospiro di protezione, girò la maniglia, e mi seguì adagio mentre a piccoli passi veloci scappavo verso l’altro angolo del cortile.

Bisogna dire che io venivo dalla provincia di Siracusa, anzi dalle montagne del Siracusano dove la gente è «babba», cioè ingenua, mite, silenziosa, povera, onesta, educata… anzi per codesti siracusani i catanesi hanno coniato un termine più preciso, quasi onomatopeico, cioè «babbasunazzi», che significa tanto ingenui da essere persino divertenti. Per molto tempo soffrii così una specie di complesso nei confronti dei catanesi, io ero malinconico e loro strafottenti, io garbato e loro tracotanti, io pulito e loro sporchi, nel senso che la mia pulizia appariva una goffa superstizione borghese e la loro sporcizia un’allegra spavalderia, io ero remissivo e loro rissosi, io stavo sul marciapiede ad aspettare il verde e loro passavano correndo con il rosso, arrivavano sempre prima di me.

Ora sono diventato come loro, cioè pressappoco strafottente, un tantino sporco, vagamente imbroglione anche con me stesso, sicuramente rissoso, e passo sempre con il rosso perché ho scoperto che, comunque, si arriva prima. I catanesi dunque corrono sempre perché ognuno vuole arrivare prima. Notare la sottile distinzione. Non è il popolo catanese che vuole arrivare prima, ma il catanese individuo, ognuno per conto suo.

Di solito arrivare prima significa conquista di denaro o potere; questa è un’altra distinzione ancora più sottile poiché in realtà il catanese è convinto che il denaro possa comperare tutto, anche il potere, mentre il potere è semplicemente uno strumento per la conquista del denaro. Tutto sommato quindi una macchina più complicata. Ecco dunque che il catanese corre per arrivare prima. Tutti corrono. Rapaci, violenti, disordinati, vocianti, ognuno per conto suo, inseguendo la vita che corre via veloce, e il catanese sempre appresso, mai distaccato d’un palmo, automobili, autobus, camion, biciclette, autotreni, moto, passanti, tutti a catafascio, da tutte le direzioni e per ogni dove, poiché il denaro è in ogni direzione.

Il denaro è il padrone del mondo, con il denaro si può tutto nella vita: una bella casa, la macchina, la villeggiatura, il rispetto della gente, la salute con garanzia delle migliori cliniche, persino la grazia dell’onnipotente il quale viene invocato in modo perentorio con la mediazione di Sant’Agata che, essendo vergine, viene tenuta in altissima considerazione: «Sant’Aituzza, vossia vede che gioco d’artificio ci ho sparato ieri sera dinnanzi al fercolo. Ruote luminose ed anche la cassa infernale. Sant’Aituzza…! Oh, Sant’Agheta…? Che fa non ci sente? Io ci avevo chiesto quella grazia…annunca niente gioco fuoco la prossima volta!»

L’amore per i soldi, la vocazione, la passione, la identificazione del potere con la massima ricchezza fa presumere che tutti abbiano la stessa passione e vocazione, il commerciante, l’industriale, il ciabattino, il medico chirurgo, l’impiegato e naturalmente l’uomo politico. Della voracità di questi ultimi i catanesi si sono fatti un paradigma, ma benevolente, quasi senza rancore, come i fatti della natura che accadono perché è nell’ordine stesso della natura che accadano. «Ohu…si mangianu li soddi!» «Ca nsamai…c’eri tu a quel posto, che facevi?»

In realtà è accaduto che, negli ultimi trent’anni, i migliori talenti catanesi siano proprio quelli che hanno tirato diritto alla conquista del denaro, senza mai passare attraverso il potere politico, semmai accaparrandoselo. E sintomatico che nell’ultimo quarto di secolo (dal povero Vitaliano Brancati, che però era d’origine siracusana) Catania non sia riuscita ad esprimere alcun lampo di autentico genio nelle arti, nelle lettere, nella musica, nelle scienze, e nella stessa politica.

Sono tutte cose che si possono comperare: essenziale è soltanto il denaro, cioè l’arte, la musica, la poesia, il potere, la politica del denaro. Ed è qui che il catanese uomo (ripetiamo uomo, non popolazione) ha espresso la sua massima fantasia e capacità, i suoi autentici lampi di genio. Qui adesso non importa fare nomi, potrebbe sembrare piaggeria.

Peraltro non si può essere perfetti. Nella mia anima catanese sono rimasti definitivamente alcuni vuoti. Io non amo il denaro. Non credo alla regola. Con messe cantate, beneficenze; elemosine, si possono riscattare anche trenta o quarant’anni di purgatorio, lo hanno detto e garantito i Papi che hanno ovvia dimestichezza con il divino, ma non si può comperare ad esempio la Quinta sinfonia di Beethoven che pure è semplicemente una cosa umana.

Scrutando gli ultimi trent’anni della storia catanese ci si rende conto che in questa città sono state realizzate quasi esclusivamente le opere che presupponevano guadagno: i quartieri residenziali, gli opulenti villaggi residenziali con piscine e campi da tennis, le splendide ville padronali, i complessi turistici alberghieri, il risanamento del San Berillo, alcuni quartieri popolari. Per costruire il monumento a Verga, che non prometteva guadagni a nessuno, dovettero passare oltre vent’anni, e il suo autore, il povero maestro Mendola, negli ultimi tempi, si dovette letteralmente aggrappare alla vita per arrivare a vedere la sua opera.

Morì poco dopo, stremato, come l’atleta di Maratona. Non esiste in tutta Europa una città così mistificatoria persino nei confronti delle statistiche economiche ufficiali. Catania risulta agli ultimi posti nella media del reddito individuale. E un imbroglio. Il denaro scorre da tutte le parti, passa nel vento, scompare, riappare, crediamo che siano pochissimi i catanesi a fare soltanto un lavoro.

Centinaia di migliaia fanno gli impiegati funzionari, professori, vigili urbani, dipendenti pubblici, maestri elementari, muratori, archivisti, e contemporaneamente sono negozianti, hanno una bancarella di ortofrutta, commerciano, suonano la tromba o il violino, curano un’industria di gelati, possiedono una radio libera, sono tassisti abusivi, fotografi, maghi, fabbricanti di mobili, elettricisti, meccanici, all’occorrenza scippatori, ladri, rapinatori, usurai, ricettatori, infermieri, ruffiani, magnacci, dattilografi.

Diventa così logico che Catania sia forse la città italiana, anzi la città europea, con il minor numero di mendicanti. L’ultimo fu un cieco col violino, vicino al crocifisso dei Miracoli, spuntava puntualmente alle sette di sera, zighizighi…fate l’elemosina al povero cieco, aveva una ciotolina di metallo e un cagnolino. Prima delle sette di sera dov’era, che faceva? Poi scomparve. Probabilmente era un notaio o un libero docente che la sera arrotondava. A Londra ci sono accattoni, a Milano, a Roma, non parliamo di Napoli.

A Catania no! I catanesi camminano sempre di corsa, non hanno nemmeno il tempo per trovare la moneta da cento in tasca, e scantonano, scavalcano i mendicanti i quali alla fine si sono incazzati: sono morti oppure si sono tolti gli occhiali da cieco ed hanno cominciato a fare gli orologiai.

C’è un personaggio esemplare che spiega l’anima catanese: Pippo de’ pirita (avremmo dovuto scrivere Giuseppe delle pernacchie, ma le anime delicate ci perdonino l’esatta nomenclatura)… Egli ha il privilegio di sapere eseguire pernacchi in ogni guisa e di ogni tonalità, brevi e stentorei, o lunghi e delicati, magniloquenti e sibillini, una gamma per ogni tipo di personaggio. Li esegue però solo a pagamento, con una classificazione precisa ed il relativo prezzo: Quella p… chiamata Catania 298 cento lire un pernacchio di esibizione, duecento a mo’ di saluto, cinquecento in segno di disprezzo e dunque deve essere ben vibrato e della durata di cinque secondi, mille lire con svolazzo finale per uomini politici o finanzieri.

Con mille lire potete appostarvi sotto casa dell’uomo potente che vi ha recato ingiustizia, vi ha bocciato agli esami, non vi ha dato la casa popolare, vi ha licenziato dal posto: chiamarlo ad alta voce e distruggerlo dinnanzi alla pubblica opinione. Così è Catania dove tutto si fa, il pernacchio o la grande opera pubblica miliardaria, solo se c’è un guadagno. Non esiste alcuna altra città italiana che sia altrettanto costruita dall’interesse privato, cioè quasi esclusivamente dagli individui, secondo il loro interesse personale, il guadagno, la comodità, la fantasia.

Dove mai potrete trovare quartieri così mirabili ed eleganti come quelli che fanno corona alla città, lungo tutta la zona pedemontana! Palermo, Roma, Napoli, Milano, Torino, Bologna, se li sognano. Tutto quello invece che è pubblico, cioè corrisponde all’interesse pubblico, non promette guadagno, denaro o potere quasi non esiste, è dimenticato, spezzato, interrotto, incompleto, devastato. L’asse attrezzato è da vent’anni una farsa, la litoranea per Acicastello è monca, le scarpate del lungomare sono depositi di immondizie, il collegamento con l’autostrada è in ritardo di cinque anni, gli ospedali schifosi come lager, il boschetto devastato, l’ente fiera un cadavere trentennale, la mareneve un imbroglio turistico, il monumento ai Caduti da sei anni un miserabile cartellone infisso sulla scogliera.

I figli, i nipoti, le vedove di quei poveracci che morirono, quasi sempre, senza nemmeno capire per cosa, quale idea dovrebbero avere del pubblico potere, se non quella comune a tutti i catanesi (individui, non popolazione): disprezzo cioè per tutto quello che è potere pubblico e interesse collettivo. Esempi miserabili e significativi. Non esiste una cabina telefonica che funzioni. Dopo una settimana scassinano la cassetta dei gettoni, poi tagliano i fili e si portano la cornetta a casa, infine cominciano a smontare anche i vetri della cabina. Sul lungomare non c’è più una panchina: spezzate, divelte, contorte, talune scomparse.

Così è Catania. Splendida, geniale, sporca, volgare, affascinante, generosa, ingannatrice, urlante, maleducata, ladra, ridente, traditrice, non rassomiglia ad alcuna altra città del mondo.

Io che ti amai subito, con la timidezza di chi viene col sacco dell’emigrante e viene condotto per la prima volta in un bordello, io che ti amai con la passione e la vergogna di chi è innamorato di una puttana, un giorno o l’altro ti abbandonerò. E subito non avrò più il mio cuore. Ma domani, e anche dopodomani voglio continuare a scrivere un madrigale per te. La tua bellezza e il tuo vizio, il tuo fascino e il tuo fallimento, la tua risata carnale e le tue piaghe schifose. Affacciati alla finestra…!

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