In un’intervista resa nel 2017 il generale Maletti, si afferma che uomini della CIA e del CIC seguivano le azioni del gruppo veneto e “avevano interesse ad aiutare l’eversione di destra, per odio anticomunista. E lo fecero, non c'è alcun dubbio. Le bombe avevano una funzione ben precisa: creare insofferenza politica” per bloccare ad ogni costo lo slittamento a sinistra del nostro Paese e il tutto avveniva con la connivenza delle autorità politiche italiane
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dal 29 luglio è iniziata la prima serie dedicata alla sentenza della corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini per la strage di Bologna e ha squarciato il velo su alcuni mandanti
Il giudice Salvini non poteva saperlo mentre scriveva la sua prima ordinanza, ma è ormai dato acquisito nel processo per Piazza della Loggia che, sia pure troppo tardi per fare giustizia, le deposizioni di Carlo Digilio non solo risulteranno fondate e riscontrate anche nei dettagli prima mancanti, compresa la sua condizione di uomo legato a Servizi Segreti stranieri, inserito nel gruppo veneto di Ordine Nuovo, ora appurata.
Appare perciò plausibile la conclusione secondo cui «entità straniere, almeno dal 1967, seguivano le attività del gruppo veneto di Maggi e Freda grazie ad un uomo come Digilio inserito in tale area ed impiegato stabilmente per controllare e riferire. Una sorta di “osservazione senza repressione” che testimonia l’interesse a non fermare certi fenomeni eversivi che contribuivano a mantenere il nostro Paese in un determinato status quo politico».
Una conclusione che nel 2017 sarà confermata dall’intervista resa dal generale Maletti ad alcuni giornalisti nella quale si afferma che uomini della CIA e del CIC seguivano le azioni del gruppo veneto e “avevano interesse ad aiutare l’eversione di destra, per odio anticomunista. E lo fecero, non c’è alcun dubbio. Le bombe avevano una funzione ben precisa: creare insofferenza politica” per bloccare ad ogni costo lo slittamento a sinistra del nostro Paese e il tutto avveniva con la connivenza delle autorità politiche italiane, salvo affermare che nessuno immaginava che sarebbe stata commessa una strage perché “la bomba nelle intenzioni doveva essere quasi innocua ... Washington, probabilmente, non conosceva il bersaglio.
Gli americani cioè, non avevano idea di dove la bomba sarebbe esplosa. Questa scelta spettava ai gruppi italiani .... La cernita delle provocazioni e delle intimidazioni era riservata esclusivamente ai terroristi. Gli americani, insomma, non eseguivano il lavoro sporco: mi pare ovvio. Quello toccava agli indigeni: agli italiani, ai cileni, ai greci. Gli americani fornivano il materiale, ovvero l’esplosivo. Per il resto, c’era una sorta di laissez faire, cioè un indirizzo generale che poi veniva messo in pratica da gruppi italiani o internazionali. Comunque sia, lo ripeto: dubito che Washington volesse la strage è stata una cosa che non doveva capitare, un accidente”.
Anche per il generale Maletti, come per il Ministro Taviani e come si ripeterà per Bologna, dietro la strage di piazza Fontana c’è una inattesa casualità che potrebbe anche essere stato un cambio imprevisto e non autorizzato di programma.
Detto questo, può affermarsi che l’indagine del giudice istruttore milanese aveva indagato nel verso giusto ed era arrivata a conclusioni plausibili, anche per quanto la responsabilità degli specifici soggetti responsabili della strage, sulle quali vi è la sostanziale conferma postuma del generale Maletti, ragion per cui quelle conclusioni acquisiscono ancor più valore in questa sede.
Tornando ai temi della sentenza-ordinanza milanese, va ribadito come le fonti di quell’istruttoria siano transitate nel nostro processo attraverso la produzione dei verbali dei testimoni principali, in base al principio dell’irripetibilità, ovvero in ragione del rinvio previa contestazione. Si tratta di vecchi e nuovi soggetti che già avevano fatto la scelta di collaborare a seguito di rielaborazioni del proprio percorso ideale, uno strumento per spiegare e giustificare, ovvero di nuovi soggetti, individuati ex novo, la cui collaborazione avviene nel contesto di quella indagine e grazie ad essa.
Di Vincenzo Vinciguerra il giudice dice che il suo ininterrotto dialogo con l’A.G. non fu una collaborazione in senso stretto, ma lo strumento processuale per proseguire "l’opera di denunzia delle collusioni e delle strumentalizzazioni cui si erano prestate le organizzazioni di estrema destra e del conseguente tradimento degli ideali nazional-rivoluzionari ".
Un atteggiamento che è proseguito fino anche nel rapporto con questa Corte, con un contributo lucido e apprezzabile, anche se limitato dalla ribadita scelta di non dire in ossequio alla formale scelta di non collaborazione, ma di semplice denuncia.
Fondamentale per l’indagine sul golpe Borghese è stato il capitano Antonio Labruna. Egli avrebbe inteso con la sua testimonianza, "riabilitare la propria figura facendo presente di avere operato agli ordini del generale Ma/etti non conoscendo pienamente gli intrighi di questo e, resosi nel tempo conto della costante illegalità in cui si muoveva il Servizio".
Da qui la scelta di rottura di produrre copia delle bobine sul golpe Borghese, frutto delle conversazioni con Orlandini, occultate dal generale Maletti e dal tenente colonnello Romagnoli.
La posizione di Labruna diventa quella del subordinato che lavora fedelmente e acquisisce prove che i superiori occultano.
Importante nella ricostruzione la deposizione del colonnello Spiazzi di conferma dell’esistenza dell’altra Gladio, i Nuclei di difesa dello Stato, nel cui ambito aveva diretto la legione veronese tra il 1968 e il 1973. Secondo Spiazzi, nella sintesi del giudice, la "struttura era coordinata dallo Stato Maggiore dell’Esercito e quindi era in qualche modo "ufficiale", Spiazzi ha voluto così rivendicare a sé il "merito" di avere guidato una struttura formalmente illegale ma, secondo la sua visione, sostanzialmente lecita intendendosi per legalità sostanziale il fine di difendere all’epoca il nostro Paese dal pericolo comunista".
Di uguale rilievo in tale contesto la deposizione di Gaetano Orlando, il quale ricostruì la storia del MAR, spiegando di non essersi mai sentito un eversore, ma piuttosto un collaboratore esterno degli "apparati statali". Il MAR infatti aveva avuto un rapporto organico con l’Esercito e i Carabinieri in funzione anticomunista. Il cambio di epoca storica dopo la svolta del 1989 aveva influito sulla decisione di collaborare.
Altri ex militanti di organizzazioni neofasciste, detenuti per reati comuni, ad anni dai fatti, avevano fatto la medesima scelta per chiarire la propria posizione nei rapporti con i servizi. È evidente in costoro la volontà di regolare i conti con un passato a volte oscuro e a volte subito (Gubbini, Bonazzi, Dominici); molti di costoro sono stati citati e rievocati nell’ambito della istruttoria svolta in questo processo.
Centrale la figura di Carlo Digilio, sulle cui deposizioni, attendibilità, riscontrabilità si sono tormentate in un travaglio, risoltosi troppo tardi, le sentenze degli anni duemila su piazza Fontana, piazza della Loggia e per l’attentato alla Questura di Milano. A ragione il giudice istruttore definisce le dichiarazioni di Digilio le “più gravi e inquietanti fra quelle che sono state raccolte nel corso dell’istruttoria”.
Carlo Digilio era stato condannato a Venezia e a Milano ad una pena severa per la partecipazione al gruppo fascista di Ordine Nuovo di Venezia e per la fornitura al gruppo di Gilberto Cavallini di molte armi tramite un armiere di Milano. Abbiamo letto il ruolo decisivo che ha avuto Carlo Digilio rispetto al c.d. alibi di Cavallini e del gruppo dei NAR condannati per Bologna. Nonostante incomprensioni tra gli inquirenti, non sembra che Digilio possa avere in alcun modo coperto Cavallini.
In ogni caso si tratta di questioni qui non rilevanti. Espulso da Santo Domingo, ove si era rifugiato nell’autunno del 1992 e rientrato in Italia, aveva deciso, dopo molte titubanze, di rivelare di essere stato più che un militante di Ordine Nuovo, uno stabile informatore dei Servizi americani, per cui aveva lavorato per circa 12 anni, infiltrandosi nell’ambiente di ON di Venezia proprio al fine di riferire ad essi quali fossero le attività di tale area. Aveva appreso e riferito, seppur forse parzialmente, importantissime notizie sugli attentati del 12 dicembre 1969, al quale aveva ammesso di avere partecipato.
Sulla rilevanza delle informazioni fomite da Digilio è sufficiente rimandare alle sentenze e soprattutto a quella del 2015 su piazza della Loggia che ha permesso di fare luce sui principali responsabili del gruppo che l’aveva realizzata. Esse rivelano quanto profonda sia stata la commistione, soprattutto in Veneto, fra i mondi di Ordine Nuovo, dei Nuclei di difesa dello Stato ( e cioè una struttura mista militari-civili italiana), Servizi Segreti italiani e Servizi Segreti americani.
La sentenza svolge un’accurata disamina sullo stato della documentazione presente negli archivi dei servizi militari, su ciò che era stato possibile consultare (gran parte anche grazie alla collaborazione dei nuovi dirigenti del servizio) e su ciò che era stato inesorabilmente eliminato (ad esempio un fascicolo personale riguardante Gelli).
In particolare, e ciò sarà decisivo per individuare elementi per la strage di Brescia, erano stati rinvenuti rapporti informativi elaborati da personale del Servizio (i cosiddetti manipolatori) grazie alle notizie fornite dalle fonti fiduciarie operanti negli anni ’70 all’interno dell’estrema destra. Spiega il giudice che esistevano "stabili informatori del S.l.D. reclutati in gruppi come Ordine Nuovo e dotati di un nome in codice".
Appurata l’esistenza di questi documenti, erano stati "messi a disposizione dell’Ufficio i fascicoli integrali relativi a tali informatori contenenti tutti i rapporti elaborati grazie ai contatti con loro ed è stato così possibile acquisire una mole notevole di notizie e, quasi sempre, direttamente o indirettamente, individuare l’identità dell’informatore e il gruppo di estrema destra in cui militava".
Le indicazioni provenienti da questi informatori infiltrati nelle formazioni di destra e di sinistra sono state preziose per capire cosa accadeva dietro le quinte degli estremismi di quegli anni, ma soprattutto per la conferma dell’acquisizione fondamentale: i servizi sapevano molte cose, ma non sono mai intervenuti in prevenzione. Altro dato emergente da questa documentazione, l’infiltrazione degli uomini della destra nei gruppi "filocinesi" italiani per il compimento di azioni di provocazione, in modo da far cadere su tali gruppi la responsabilità di attentati e azioni violente.
Da questa ricerca emerge un fascicolo intestato a una fonte, denominata nel fascicolo relativo "Tritone". Le sentenze e gli storici potranno apprezzare la decisività delle informazioni provenienti da questa fonte, una volta identificata e chiamata a testimoniare. Si tratta, infatti, di Maurizio Tramonte condannato definitivamente per la strage di Brescia.
Dalle informazioni che aveva fornito al suo agente manipolatore, il maresciallo Felli, era stato possibile accertare che subito dopo la strage di Brescia, il dr. Carlo Maria Maggi, reggente di Ordine Nuovo per il Triveneto, aveva indetto riunioni a Brescia e a Venezia, spiegando ai militanti che la strage di Piazza della Loggia doveva essere solo il momento iniziale di un’escalation che avrebbe visto di lì a poco nuovi e più gravi episodi, tra cui la bomba sul treno Italicus.
Altra fonte di rilievo fu la fonte Turco, identificata in Gianni Casalini. Dai rapporti informativi redatti sulla base delle confidenze della fonte emerse che Casalini era uno stabile informatore del SID di Padova negli anni ’70. Faceva parte del gruppo di Franco Freda e si è potuto così comprendere perché il generale Mal etti nell’appunto manoscritto, poi sequestrato nella sua abitazione, raccomandasse con urgenza che la fonte fosse "chiusa" e disattivata.
Il pericolo consisteva nella concreta possibilità che Casalini fornisse altre notizie sulla responsabilità del gruppo di Padova negli attentati e sulle coperture di cui godeva, notizie queste la cui acquisizione non poteva essere apprezzata dal generale Maletti che già si era adoperato per organizzare l’espatrio di Guido Giannettini e di Marco Pozzan, sottraendoli alle indagini.
Casalini negli anni successivi collaborerà con la giustizia; emergerà la sua partecipazione diretta all’attentato di piazza Fontana; fornirà notizie decisive per giungere all’individuazione degli autori della strage, sia pure senza riflessi in ambito giudiziario, all’accertamento della provenienza dell’esplosivo da una base americana in Germania. Che dall’individuazione di questi fascicoli e dei rapporti delle fonti infiltrate potesse uscire finalmente una plausibile ricostruzione degli esecutori di alcune delle stragi rimaste senza responsabili, è un’indicazione che si coglie con chiarezza dalla sentenza-ordinanza Salvini.
Scrive il giudice nel suo documento: “Certamente, ed era del resto prevedibile, in nessun fascicolo acquisito presso il SISMI vi sono scritti a chiare lettere i nomi e le singole responsabilità di chi ha commesso le stragi che hanno insanguinato l’Italia dal 1969 al 1980. Tuttavia, grazie all’acquisizione di tali fascicoli, sono state acquisite notizie che si saldano perfettamente con le dichiarazioni dei testimoni e degli imputati e che spiegano rapporti e collegamenti che in passato erano stati appena adombrati.”
D’altra parte, nel libro-intervista memoriale del generale Maletti lo stesso afferma "Non c’è molto da dire. La bomba, alla Banca dell’Agricoltura, fu piazzata da elementi eversivi di destra. Questo è assodato, direi".
L’ufficiale conferma di conoscere i nomi di coloro che collocarono l’ordigno, ma si rifiuta di farli agli intervistatori, pur confermando tutte le verità uscite dai processi, mentre sulla chiusura della fonte Turco – Gianni Casalini e sul ritardo con il quale le sue confessioni furono raccolte, il generale fornisce giustificazioni risibili che confermano la conclusione che ne aveva tratto il giudice.
La Corte non ha citato in dibattimento gli autori del libro-intervista per non appesantire il dibattimento, considerando la documentazione letteraria liberamente pubblicata e presente in librerie e biblioteche come fatto di comune dominio sul piano informativo e della conoscenza giudiziale
Emerge dall’intervista, che fino al 1975 il SID si è rifiutato di valorizzare e approfondire le notizie che provenivano dall’interno della destra eversiva che poteva essere fermata già nel 1972 con un’incisiva azione di contenimento e repressione, fondata su prove ormai evidenti, mettendo in condizione chi volesse parlare di farlo o di subire le inevitabili severe conseguenze giudiziarie. Sappiamo invece che servizi ed apparati militari pensavano all’estrema destra come alle truppe di complemento del golpe e di contenimento dell’avanzata della sinistra.
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