Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Tornando indietro nel tempo, ricordo che al processo ci avvicinammo in un clima che, mano a mano, si fece sempre più rovente. Gli attacchi del “Giornale di Sicilia” ‒ ma dov’era la novità? ‒ si fecero quotidiani; improvvisamente ci fu un risveglio di attenzione, mai notato in precedenza, per il rispetto delle libertà civili. I giudici erano un pericolo per la democrazia... Anche la politica fece la sua parte mettendo le mani avanti e negando che ci potessero essere collegamenti fra Cosa nostra e la classe dirigente siciliana.

E infine presero una posizione borderline esponenti della Arcidiocesi di Palermo.

Dopo la “strage” di Ciaculli del 30 giugno 1963, Angelo Dell’Acqua, sostituto della segreteria di Stato, su iniziativa di Papa Paolo VI, inviò una lettera al cardinale Ernesto Ruffini, a Palermo dal 1946, con la quale invitava l’arcivescovo a valutare se non fosse “il caso, anche da parte ecclesiastica, di promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri... per dissociare la mentalità della cosiddetta ‘mafia’ da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di pacificare gli animi e prevenire nuovi attentati alla vita umana”.

Il cardinale Ruffini rispose in modo irritato e risentito.

Si disse sorpreso alquanto che si potesse supporre che la mentalità della cosiddetta mafia fosse associata a quella religiosa e aggiunse: “È una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali”.

Va ancora ricordato che, richiesto di spiegazioni da Papa Paolo VI sul caso dei frati di Mazzarino, finiti sotto processo, il cardinale Ruffini si lanciò in una loro difesa a spada tratta. Il palese intento di Ruffini era quello di giustificare il suo operato agli occhi del nuovo Papa e, soprattutto, smentire, oltre ogni evidenza, l’esistenza di collusioni tra clero e criminalità.

Prese una decisa e ferma posizione, invece, il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo metropolita di Palermo, il cui impegno contro Cosa nostra ha segnato una tappa importante nella storia della Chiesa siciliana. È rimasta nel ricordo di tutti, e all’epoca ebbe una clamorosa risonanza, la frase pronunciata durante l’omelia al funerale del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, (“mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”), un esplicito atto di accusa contro lo Stato che temporeggiava nella stagione degli omicidi eccellenti.

Per alzare la tensione venne utilizzata anche la piazza, con manifestazioni organizzate contro l’arresto dell’ex sindaco Vito Ciancimino e la nuova politica del Comune che cercava di eliminare la piaga del clientelismo anche a scapito di posti di lavoro nelle municipalizzate.

I dimostranti portavano in corteo cartelli con le scritte “Con l’antimafia non si mangia”, “Viva la mafia e viva Ciancimino” oppure “Con Ciancimino c’era lavoro”.

Il giorno in cui si aprì il processo, il “Giornale di Sicilia” intitolò: “Silenzio entra la corte”. Nell’editoriale si avvertirono i lettori che da allora in poi il giornale si sarebbe astenuto da ogni commento. Come se non bastasse, vennero varate due nuove rubriche dal titolo “Mafia” e “Antimafia” per rispettare l’obiettività di giudizio.

Come se fosse normale avere una posizione equidistante tra mafia e antimafia. Il tutto ricordava i tempi in cui molti sostennero lo slogan “Né con le Br né con lo Stato” assumendo una posizione terza fra chi sparava e chi cercava di fare rispettare la legge.

Anche l’ultimo passaggio non fu facile. Bisognava trovare il magistrato che avrebbe assunto la presidenza della Corte di Assise. Compito dimostratosi arduo per il Presidente del Tribunale. Qualcuno dei primi designati adduceva indisposizioni presentando certificati medici, altri si giustificavano evidenziando di essere già oberati di lavoro che non avrebbe consentito loro di presiedere un processo che si prevedeva essere complesso e di lunga durata.

Alla fine e a sorpresa, la scelta cadde sul dottor Alfonso Giordano, che non si sottrasse al suo dovere.

L’ho conosciuto giovane sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, nel corso del mio uditorato in quella Procura. Ricordo che si occupava, anche, di sostenere l’accusa nelle cause civili nelle quali è previsto l’intervento del pm.

Alfonso Giordano, una vita professionale quasi interamente dedicata al diritto civile, come da lui ricordato, non aveva mai pronunciato una condanna all’ergastolo. Per essere in grado di gestire quel processo, affrontò anche un suo percorso interiore che gli fece acquisire la tranquillità necessaria per affrontare i due anni di un dibattimento che vedeva alla sbarra il “gotha” di Cosa nostra. E lo fece in maniera egregia. Al suo fianco il giudice a latere, Pietro Grasso, che chiese e ottenne di essere trasferito dalla Procura al Tribunale per assumere quell’incarico. Non gli fu difficile, in considerazione della riottosità degli altri colleghi a ricoprire quel posto scomodo. Scelte coraggiose, ma ancora più coraggiosa fu la decisione di quei cittadini che accettarono di fare parte della corte come giudici popolari. Quando vennero convocati 50 cittadini tra i quali sorteggiare quelli che avrebbero composto la Corte di Assise, 37 non si presentarono, nove rifiutarono e quattro accettarono con “riserva”. I certificati medici fioccarono: gastroduodenite, coliche renali, problemi vascolari, malattie dell’apparato respiratorio, reumatismi. Venne sorteggiata anche la moglie di Pietro Grasso, il giudice a latere del Maxiprocesso, che dovette rifiutare per ovvie ragioni di incompatibilità. Alla fine qualcuno accettò e con fatica si riuscì a completare l’organico della corte anche con la nomina di giudici togati e popolari supplenti.

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