Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro–tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado che ha assolto l’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. La sentenza di secondo grado, confermata in Cassazione, ha accertato invece che – fino alla primavera del 1980 – Andreotti aveva avuto rapporti con i boss Cosa Nostra


Il sen. Andreotti incontrò a Roma tre volte (rispettivamente intorno al 1976, il 20 settembre 1978 e nel 1983) Vito Ciancimino, esponente della Democrazia Cristiana di Palermo il quale aveva instaurato da lungo tempo un rapporto di stabile collaborazione con lo schieramento “corleonese” di "Cosa Nostra".

Il Ciancimino, componente del Consiglio Comunale di Palermo dal 1956 al 1975, ricoprì le cariche di assessore alle Aziende Municipalizzate dal 18 giugno 1956 al 1957, di Assessore alle Aziende Municipalizzate, alle Borgate ed al Lavoro dal 1957 al 4 aprile 1961, di Assessore ai Lavori Pubblici dal 5 aprile 1961 al 30 giugno 1964, di Sindaco dal 25 novembre 1970 al 27 aprile 1971 (v. il documento n. 174).

La partecipazione del Ciancimino all’associazione mafiosa "Cosa Nostra" è stata accertata con la sentenza emessa il 17 gennaio 1992 dal Tribunale di Palermo, della quale si riportano di seguito alcuni passaggi al fine di illustrare i legami del medesimo soggetto con i “corleonesi”, il rilevante ruolo da lui assunto nell’ambito della vita politica palermitana, gli illeciti interventi da lui realizzati in favore di individui facenti parte del sodalizio, i suoi rapporti con Francesco Caltagirone, il clima di diffusa intimidazione e generale compiacenza che aveva circondato il suo agire politico e la gestione del suo patrimonio:

Anche Vito CIANCIMINO, già assessore al Comune di Palermo e Sindaco della città, veniva accusato dal BUSCETTA. Quest'ultimo, infatti, nell'interrogatorio reso al Giudice Istruttore il 25 luglio 1984, dichiarava che il CIANCIMINO era "nelle mani di Totò RIINA", braccio destro di Luciano LEGGIO, latitante da oltre vent'anni.

Durante le indagini disposte a seguito di tali rivelazioni venivano effettuate perquisizioni nell'abitazione e nelle pertinenze del CIANCIMINO che, contestualmente, veniva indiziato dei delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis C.P. (…) Pervenivano, nel frattempo, dalla Commissione Parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia i resoconti delle audizioni di Elda PUCCI, Giuseppe INSALACO e Nello MARTELLUCCI che si erano succeduti nella carica di Sindaco di Palermo. Sentiti dalla Commissione, i predetti avevano, infatti, riferito, più o meno apertamente, che il peso politico esercitato dal CIANCIMINO nelle vicende del Comune era enorme, tanto che nessun Sindaco poteva rimanere in carica senza il suo consenso, e che uno degli elementi inquinanti della vita del Comune era la questione relativa al rinnovo dei due grandi appalti concernenti la illuminazione e la manutenzione delle strade cittadine stipulati dal Comune, rispettivamente, con le società I.C.E.M. e L.E.S.C.A., nell'interesse delle quali, secondo la PUCCI e l'INSALACO, il CIANCIMINO aveva più volte fatto delle pressioni sia pure per interposta persona.

(...)

Il 25 luglio 1984 Tommaso BUSCETTA interrogato dal Giudice Istruttore, dott. G. FALCONE riferiva testualmente: "Quando sono andato a trovare a Roma Pippo CALO', dopo di essermi allontanato da Torino, quest'ultimo, al quale esternai la mia volontà di abbandonare tutto e di tornare in Brasile, insistette moltissimo perché io rimanessi facendomi presente che c'era la possibilità di guadagnare moltissimo a Palermo essendo in corso l'operazione di risanamento dei quattro quartieri o meglio mandamenti; operazione, questa, gestita da Vito CIANCIMINO, corleonese, che era, secondo le testuali parole di CALO' «nelle mani di Totò RIINA»".

Successivamente il 10.11.1984 sempre al Giudice Istruttore dichiarava: "... come ho appreso da Stefano BONTATE, il MARTELLUCCI mercè la intermediazione dei SALVO, aveva accettato che CIANCIMINO gestisse il risanamento dei mandamenti di Palermo.

Quando, dunque, venne fatto esplodere un ordigno nella villa del MARTELLUCCI il BONTATE era particolarmente adirato perché non si capiva cosa volessero ancora CIANCIMINO e i corleonesi...". Interrogato dalla Corte di Assise di Palermo nel corso del procedimento contro ABBATE Giovanni ed altri (c.d. Maxi-uno) il BUSCETTA precisava, all'udienza del 3.4.1986, (…) quanto segue:

"Nell'Ottanta mi fu riferito, testualmente da Pippo CALO' che io rimanessi in Italia, a Roma... dicevo, ma io non so cosa fare in Italia, io desidero allontanarmi, ma tu puoi rimanere qua, ci sono delle possibilità, una di queste potrebbe essere i quattro quartieri di Palermo.

I quattro quartieri sono gestiti dal signor CIANCIMINO, ex sindaco di Palermo, il quale può dare delle possibilità".

A domanda del Presidente sui legami che il CIANCIMINO avrebbe avuto ("questo CIANCIMINO avrebbe avuto legami...?) il BUSCETTA rispondeva: "Con i corleonesi"... "CIANCIMINO in mano ai corleonesi". E invitato a spiegare l'espressione aggiungeva: "Ho voluto dire che era in mano a Totuccio RIINA".

Invitato nuovamente a chiarire cosa significasse "essere in mano", BUSCETTA così si spiegava:

"Quando una persona come me o come CALO' o come un altro che fa parte della mafia dice" «E' ne mani di chi» significa: «è in totale possesso della persona, che farà quello che quell'altra persona mafiosa indicherà di fare». Questo è nel gergo mafioso. Se poi tradotto in italiano perde il suo valore, io non so fare diversamente". (…) All'udienza del 5 aprile 1986 (...) gli veniva chiesto di specificare in che cosa fosse costituito l'intervento dei SALVO e il BUSCETTA rispondeva: "La pressione dei corleonesi sui SALVO, essendo uomini d'onore, per convincere MARTELLUCCI a cedere a quello che desiderava CIANCIMINO".

(...)

Il BUSCETTA ha poi ricevuto da BONTATE Stefano analoghe confidenze sui rapporti del CIANCIMINO con Totò RIINA e i corleonesi in genere, nonchè sulla gestione del risanamento.

E' opportuno riportare testualmente tali confidenze:

"Quando nell'estate del 1980 MARTELLUCCI dovette subire un attentato dinamitardo nella sua villa, Stefano BONTATE, commentando con me l'accaduto a casa sua, disse testualmente: «Questo gran cornuto di Totò RIINA se la prende con MARTELLUCCI sol perché non è amico di Vito CIANCIMINO»". (...)

Del resto le connotazioni stesse dell'episodio riferito al BUSCETTA, la sua occasionalità, le espressioni attribuite al BONTATE,perfettamente in sintonia con una reazione emotiva di ira, sono elementi positivi dai quali può trarsi il convincimento che il BONTATE si espresse in quei termini perché era convinto, conoscendo i legami tra Totò RIINA e Vito CIANCIMINO, che l'attentato al MARTELLUCCI fosse opera dei corleonesi e trovasse la sua causa nell'atteggiamento poco disponibile che il MARTELLUCCI manteneva nei confronti del CIANCIMINO.

Ma ciò che qui interessa non è se i fatti si siano svolti come il BONTATE li ha ricostruiti, ma che un individuo dello spessore mafioso di BONTATE Stefano, per anni ai vertici di "Cosa Nostra", non poteva non conoscere gli equilibri di potere, i legami e gli schieramenti degli altri affiliati.

Dunque se egli ritenne che il RIINA avesse organizzato un fatto così grave come l'attentato al MARTELLUCCI per piegare la resistenza incontrata dal CIANCIMINO nella sua attività politico-affaristica, ciò significa che era assolutamente certo che i due (RIINA e CIANCIMINO), avessero interessi comuni.

Le affermazioni del BUSCETTA, sottoposte ad una rigorosa valutazione (d'obbligo, nel caso di specie, costituendo esse una chiamata di correo "de audito"), sono risultate, pertanto, pienamente attendibili. (…)

Nel corso di numerosi interrogatori resi dopo essersi dissociato dall'organizzazione, il MARINO MANNOIA riferiva, tra l'altro, al Giudice Istruttore: "Stefano BONTATE invece aveva molta stima nei confronti del Sindaco MARTELLUCCI, ma ignoro quali rapporti vi fossero fra i due se non che il BONTATE diceva del MARTELLUCCI che questi era una persona seria. Stefano BONTATE, invece, non nutriva nessuna stima nei confronti di Vito CIANCIMINO del quale diceva che era legatissimo a Totò RIINA e a Pippo CALO' e che contava di fare affari molto lucrosi con il risanamento di quella parte del centro storico di Palermo comunemente intesa come zona di Piazza Magione". (v. interrogatorio del 17 ottobre 1989 prodotto dal P.M. all'udienza del 6.5.1991).

(...) il collaborante pur confermando sostanzialmente il contenuto delle dichiarazioni rese in istruttoria ("Ho appreso della vicinanza del sig. CIANCIMINO a Salvatore RIINA e al Pippo CALO', nient'altro di particolare...") ha mantenuto all'udienza del 6.12.1991 un atteggiamento volto ad evitare qualsiasi approfondimento dell'argomento precisando anche che oltre a quanto aveva appreso dal BONTATE durante una "chiacchierata" con diversi uomini della "famiglia", egli non sapeva "niente di più preciso e niente di particolare" (v. interrogatorio dell'Udienza del 6.12.1991).

Ora tale atteggiamento, da cui immotivatamente la difesa del CIANCIMINO fa discendere la inconsistenza probatoria delle rivelazioni, trova invece diverse spiegazioni che non hanno nulla a che vedere con l'attendibilità o meno del collaborante.

(...) il suo disagio trova spiegazione soprattutto nel fatto, notorio, che tutti i collaboranti (incluso il MARINO MANNOIA) hanno esplicitamente dichiarato di essere restii a rivelare i legami tra "Cosa Nostra" e il mondo politico, affermando di essere poco convinti della reale volontà dello Stato di fare luce sui collegamenti tra mafia e politica. (...)

Tanto premesso va ora presa in esame la questione della coincidenza delle sue dichiarazioni con quelle del BUSCETTA, coincidenza a cui la difesa ha ricollegato il sospetto che egli abbia ripetuto pedissequamente quanto aveva appreso durante il dibattimento svoltosi dinanzi alla Corte di Assise di Palermo.

Il Collegio a questo proposito rileva che effettivamente le sue dichiarazioni sono perfettamente analoghe a quelle del BUSCETTA, ma che tale analogia non solo non ne infirma l'attendibilità, ma anzi aumenta la credibilità delle accuse poichè, rispetto alle rivelazioni del BUSCETTA, il MARINO MANNOIA ha riferito un particolare ulteriore e cioè che il CIANCIMINO contava di fare affari molto lucrosi col risanamento "di quella parte del centro storico inteso come piazza Magione" (v. int. del 17.10.1989 allegato agli altri del dibattimento). (...) La circostanza che il collaborante abbia aggiunto, rispetto a quanto dichiarato dal BUSCETTA, tale ulteriore particolare che ha ricevuto riscontro negli atti del processo porta, quindi, a ritenere che egli non ha riportato quanto aveva udito dire al BUSCETTA nel dibattimento di primo grado del processo a suo carico, ma che ha appreso da altra fonte tale notizia; fonte che lui stesso ha indicato nel suo capo Stefano BONTATE.

E che tale fonte sia pienamente attendibile lo si ricava dalle seguenti circostanze: il dichiarante non era solo un "uomo d'onore" della "famiglia" di S. Maria di Gesù, bensì uno dei "fedelissimi" alle dirette dipendenze del BONTATE; ha raffinato ingenti quantitativi di droga nell'interesse del suo capo, in compagnia del quale era solito trascorrere moltissimo tempo, e dal quale riceveva i sui "sfoghi" come lui stesso ha detto.

Tali circostanze, allora, inducono ad escludere che il BONTATE, allorchè riferì al MARINO MANNOIA dei rapporti del CIANCIMINO con Salvatore RIINA e Pippo CALO' possa avergli mentito, e ad affermare, per converso, che egli abbia confidato al MARINO MANNOIA proprio quanto era a sua conoscenza.

Sarebbe del resto veramente singolare ipotizzare che Stefano BONTATE, il quale riponeva tanta fiducia nel MARINO MANNOIA da tenerlo presso di sè, alle sue dirette dipendenze, annoverandolo tra i sui fedelissimi, gli abbia mentito e per di più su di una circostanza che, riguardo al suo interlocutore, non era di alcun interesse.

E altrove si è detto come il BONTATE, per la sua posizione esponenziale all'interno di "Cosa Nostra" dovesse necessariamente essere al corrente degli schieramenti, delle alleanze e delle collaborazioni di cui si giovavano gli altri affiliati, specie, poi, di coloro che, proprio in quel periodo, erano suoi antagonisti, come i corleonesi. (...)

Dalle dichiarazioni dei collaboranti, dunque, si trae che nel 1980 sussisteva per "Cosa Nostra" la prospettiva di fare lucrosi affari con il risanamento e che tale prospettiva si sarebbe concretizzata soltanto nel futuro e, cioè, negli anni successivi al 1980, allorchè la disponibilità garantita dal CIANCIMINO a "Cosa Nostra" nella gestione del recupero del centro storico avrebbe avuto concreta attuazione. (...)

Da quanto sopra detto si desume che l'imputato mantenne un atteggiamento di totale disponibilità nei confronti dei membri dell'organizzazione fino alla data del suo arresto e ciò è riscontrato, come si vedrà nel prosieguo:

1) dai molti episodi in cui il CIANCIMINO è intervenuto illecitamente a favore di individui facenti parte del sodalizio (DI TRAPANI e MONCADA);

2) dalla sua partecipazione ad imprese e società "mafiose";

3) dai rapporti con POZZA Corrado Michael;

4) dalla cessione dell'appalto della "DELTA";

5) dalla sua condotta di pubblico amministratore;

6) dai riscontri specifici in ordine alla questione del risanamento;

7) dalla ingiustificata consistenza patrimoniale;

5) dall'ambiente in cui ha agito.

(...)

Con provvedimento del 28 novembre 1967 il Tribunale di Palermo sottoponeva DI TRAPANI Nicolò alla misura della sorveglianza speciale della P.S. per la durata di cinque anni.

Come si legge nel relativo provvedimento, infatti, il predetto era risultato affiliato alla potente cosca mafiosa facente capo a DI MARIA Vincenzo, i cui componenti avevano realizzato cospicui guadagni "attraverso la violenza, l'inganno, l'intimidazione e la sopraffazione per il predominio dello sfruttamento delle aree edificabili della città" (...). Ora, al raggiungimento di tali cospicui guadagni da parte del DI TRAPANI, il CIANCIMINO risulta avere concretamente contribuito.

Ed, infatti, il 24 febbraio 1960 DI TRAPANI Nicolò presentò al Comune di Palermo alcune osservazioni al piano regolatore generale relativamente ad un terreno di proprietà della sua famiglia, sito nella borgata Malaspina, tra le vie Cilea, Tramontana e Malaspina. Tale richiesta concerneva:

1) l'aumento della densità edilizia della zona Malaspina da 4 a 10 mc per mq (o, in subordine, a 9);

2) la destinazione ad edilizia privata di ampia zona di proprietà DI TRAPANI già indicata nel piano regolatore come prescelta per il verde pubblico; Con delibera dell'11.7.1960 il Consiglio Comunale, su proposta dell'Assessore competente, Vito CIANCIMINO, approvava l'aumento della densità edilizia portandola a 9 mc per mq, nonchè la destinazione quasi totale della zona, già destinata a verde pubblico, ad edilizia privata.

Ciò comportò che la famiglia del DI TRAPANI potè cedere alla società immobiliare "LA FAVORITA" un'area pari a mq 11.152 al prezzo (asserito) di lire 324 milioni. E' risultato, altresì, che tale società, in detta area, costruì 134 appartamenti di cui 40 per i DI TRAPANI (v. Rapporto CC. di Palermo 15.1.1971 all. 2 ...). (...) Intanto dalla lettura di tale delibera emerge che la proposta avanzata dal CIANCIMINO, che quale Assessore ai Lavori Pubblici era l'organo che aveva maggiore autorevolezza in materia; proposta tendente all'approvazione della gran parte delle osservazioni dei privati per far mutare la destinazione di vaste zone da verde pubblico a verde agricolo o addirittura ad aumentare la densità edilizia, fu vivamente contestata da alcuni consiglieri (FERRETTI e NAPOLI) i quali si dichiararono contrari a tutte le "osservazioni che si riferivano alla riduzione del verde pubblico e all'aumento della densità edilizia, sottolineando come l'accoglimento di esse avrebbe ridotto ulteriormente il verde pubblico, già così scarso, in rapporto ad altre grandi città" (...).

E non è senza significato sottolineare che allorchè uno dei consiglieri che si erano opposti (FERRETTI) chiese, in linea subordinata, di stabilire, quantomeno, norme di attuazione intese a limitare le costruzioni edificabili esclusivamente a case coloniche, l'Assessore CIANCIMINO intervenne "per rilevare che il compito che è chiamato oggi ad assolvere il Consiglio è quello di accogliere o respingere le osservazioni o opposizioni al Piano" (...).

Le isolate voci contrarie furono così definitivamente messe a tacere e con la delibera dell'11.7.1960, nonché con quelle successive vennero approvate centinaia di osservazioni al P.R.G., che solo formalmente vennero sottoposte all'esame del Consiglio Comunale, giacchè è intuitivo che in poche sedute tale Consiglio non potè esaminarle singolarmente, limitandosi a ratificare quanto l'Assessore aveva proposto.

L'approvazione in massa di tali osservazioni comportò la drastica riduzione delle zone di verde pubblico, e l'aumento della densità edilizia in un vastissimo comprensorio; modifiche che vennero a stravolgere totalmente il P.R.G. dando inizio a quel fenomeno che è ormai storicamente noto come "il sacco" di Palermo.

Se il CIANCIMINO non è l'unico autore di esso, egli ne fu però certamente il protagonista poiché nella sua veste di Assessore competente fu lui a proporre l'approvazione delle osservazioni dei privati a discapito dei pubblici interessi, giustificando tale posizione dinanzi al Consiglio con la circostanza, davvero pretestuosa, che il Comune mai avrebbe avuto i fondi necessari per indennizzare i privati per l'espropriazione o i vincoli imposti ai loro terreni (v. delibera 11 luglio 1960...).

Più in generale va detto che tutto ciò che gli organi comunali hanno svolto in quegli anni nel settore edilizio è avvenuto sotto la sua stretta e puntuale vigilanza.

Nulla fu deliberato in tale materia, specie se scelte di grande rilevanza, senza che egli ne avesse conosciuto la portata e condiviso gli scopi.

La sua indubbia abilità, la sua specifica competenza nel settore dell'edilizia, la sua stessa personalità, indicano, infatti, che egli fu veramente il "dominus" dell'edilizia negli anni cruciali dell'espansione urbanistica della città e rivestendo tale ruolo non si limitò ad agire genericamente nell'interesse di speculatori privati, poiché, in modo più specifico, riuscì ad avvantaggiare abilmente personaggi mafiosi a lui vicini.

(...)

Ora, che il CIANCIMINO abbia consapevolmente agito nell'interesse del DI TRAPANI, pur nel quadro di una generica condotta volta ad avvantaggiare i privati più che a tutelare gli interessi della collettività, lo si desume dai preesistenti legami con il predetto ed in particolare dalla disponibilità mostrata dal CIANCIMINO alle richieste del DI TRAPANI, documentata dalla vicenda dell'AVERSA.

Con denunzia del 5 agosto 1963 al Procuratore della Repubblica di Palermo, l'avv. Lorenzo PECORARO, nella qualità di socio amministratore della società edilizia "AVERSA", aveva riferito, tra l'altro, che sin dal 28.11.1961 aveva inutilmente presentato all'Ufficio Tecnico del Comune di Palermo istanza per ottenere la licenza di costruzione in un comparto di terreno sito nel "Fondo Palagonia" mentre la società edilizia "SICILCASA" aveva ottenuto numerose licenze di costruzione nei lotti vicini e che la pratica dell'AVERSA era stata benevolmente presa in considerazione soltanto allorchè egli aveva interessato della vicenda tale "Don Cola DI TRAPANI", noto mafioso ed amico del CIANCIMINO. (...)

Il 21.6.1962 poi, il DI TRAPANI era stato tratto in arresto, mentre si trovava nei locali dell'impresa di costruzione di MONCADA Girolamo, individuo a vantaggio del quale, come si vedrà, il CIANCIMINO usò più volte la sua influenza, divenendo poi socio del fratello, Salvatore, nella I.S.E.P. nel 1965.

(...) le accuse del PECORARO sono state ribadite a distanza di tempo e non sono rimaste infirmate dalla successiva ritrattazione (che anzi per i metodi con i quali fu ottenuta semmai le conferma) e hanno trovato riscontro nei rapporti effettivamente esistenti tra il CIANCIMINO ed il DI TRAPANI e nei reciproci collegamenti con MONCADA Girolamo.

Tali accuse, che in buona sostanza, si incentrano sulla "influenza" che un personaggio mafioso come il DI TRAPANI era in grado di esercitare sull'imputato proprio all'epoca in cui il CIANCIMINO propose al Consiglio Comunale l'approvazione di una delibera che arrecava enorme vantaggio economico al predetto, dimostrano allora:

1) che il CIANCIMINO era disponibile alle richieste provenienti da personaggi mafiosi con i quali manteneva stretti legami;

2) che fin dagli anni '60 tali legami erano noti;

3) che allorchè egli propose nella sua veste di Assessore competente le istanze del DI TRAPANI per la modifica del P.R.G. agì con il preciso scopo di favorirlo; Infatti, garantendogli un arricchimento di enormi proporzioni (la somma di lire 324 milioni di lire, nel 1962, equivale, infatti, a svariati miliardi di oggi), egli aumentava consapevolmente il potere del DI TRAPANI e della cosca a cui il predetto apparteneva consentendogli di volgere in proprio favore la lotta per il predominio dello sfruttamento delle aree edificabili e favoriva l'infiltrazione delle cosche mafiose nel settore edilizio.

Tale episodio, dunque, costituisce un significativo riscontro alle accuse dei collaboranti perché dimostra il suo consapevole apporto all'associazione, in termini di rafforzamento economico e di controllo del settore edilizio. (...)

Con decreto del 15.11.1963 il Presidente della Regione Siciliana disponeva un'ispezione straordinaria presso il Comune di Palermo incaricando una commissione presieduta dal Prefetto, dr. T. BEVIVINO. Tale commissione aveva il compito di accertare, tra l'altro, se nel settore edilizio erano state osservate le prescrizioni del piano regolatore, le norme di attuazione e le disposizioni del regolamento edilizio.

Dall'esito di tale ispezione, a cui d'ora in poi, per brevità, si farà riferimento come "rapporto BEVIVINO" (...), emersero molteplici e gravi irregolarità commesse da alcuni organi comunali preposti al settore dell'edilizia.

Il rapporto rilevò anzitutto che la Commissione Edile (della quale il CIANCIMINO aveva fatto parte, come membro di diritto, per la sua carica di Assessore al ramo), avrebbe dovuto, in base all'art. 14 del Regolamento edilizio, durare in carica per tre anni ed essere rinnovata, ogni anno, per un terzo.

Alla data dell'ispezione (1963), essa, invece, era ancora quella originariamente costituita nel 1956 e ciò nonostante il capo dell'Ufficio Tecnico comunale avesse fin dal 1958 "sistematicamente" avanzato la proposta di rinnovo all'Amministrazione (...). Erano cioè trascorsi sette anni senza che fosse intervenuto alcun ricambio dei suoi membri a carico dei quali sussisteva, dunque, oltre alla trasgressione di un generico dovere di correttezza, anche la violazione di una precisa norma regolamentare.

Il rapporto BEVIVINO mise poi in luce che l'Amministrazione Comunale non si era avvalsa delle norme di salvaguardia del P.R.G. e aveva rilasciato le licenze edilizie accogliendo le varianti dei privati al Piano del 1959 (pag. 8) e accertò numerose e specifiche "irregolarità" commesse dagli organi comunali.

Da ciò discende che l'omesso rinnovo nei termini di legge dei componenti della Commissione Edilizia, il mancato utilizzo delle norme di salvaguardia del P.R.G. ed il rilascio di licenze di costruzione in cui venivano accolte le numerose varianti richieste dai privati fanno ritenere che la Commissione Edilizia abbia operato non nell'interesse pubblico, come era suo compito istituzionale, ma in favore di diversi e specifici interessi speculativi di privati.

Ulteriore dimostrazione di ciò è fornita dal fatto che la Commissione accertò anche che le licenze di costruzione concesse dal novembre 1959 al novembre 1963 e, cioè, nel periodo nel quale il CIANCIMINO aveva ricoperto l'incarico di Assessore all'edilizia, (complessivamente in numero di 4.205) erano state rilasciate per l'80% in favore di cinque persone e, precisamente, MILAZZO Salvatore (1653), CAGGEGI Michele (702), LEPANTO Francesco (447), FERRANTE Lorenzo (447) e MINEO Giuseppe.

La direzione dei LL.PP. deteneva, infatti, un albo dei costruttori edili per conto terzi nel quale venivano iscritti, a richiesta degli interessati, i costruttori autorizzati ad eseguire opere edilizie (...).

I predetti avevano presentato delle certificazioni attestanti l'esecuzione di lavori edili di natura ed entità imprecisate e, nonostante la genericità di tale documentazione, avevano ottenuto l'iscrizione all'Albo.

In realtà, però, ad eccezione del LEPANTO che era ingegnere, essi erano dei semplici manovali che vivevano in modeste condizioni economiche (...).

Dunque i predetti erano tutti prestanomi dei veri costruttori. Tale irregolarità era stata avvertita dagli stessi Uffici Tecnici che più volte avevano sollecitato il rinnovo e l'aggiornamento dell'Albo (v. All. 2 al rapporto BEVIVINO), ma l'Assessore aveva lasciato detto Albo inalterato. (...)

Ciò che però va detto è che il mantenimento di tale prassi nel momento della massima espansione edilizia della città, si prestò efficacemente a tutelare l'anonimato dei costruttori palermitani. (...)

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