«Raneem non c’è più. Raneem è morta». Un messaggio su WhatsApp annuncia così l’ennesima tragedia a Gaza. La madre Sawsan è viva per miracolo, ma la sua bambina di 12 anni è stata dilaniata dai bombardamenti sulla scuola gestita dalla Unrwa, nel campo di Nuseirat.

Raneem e la sua famiglia si erano rifugiati proprio lì dopo che i bombardamenti si erano concentrati sulla zona di Bureij, dove vivevano. E così si erano trasferiti in una scuola gestita dalle Nazioni unite, credendo fossero al sicuro. Così non è stato. «Non siamo terroristi, nessuno di noi ha mai avuto a che fare con Hamas», ha poi raccontato Sawsan, «ma hanno detto che la scuola era un covo di combattenti. Non è vero. Non c’era nessuno di loro, solo famiglie palestinesi scampate ad altri bombardamenti». La disperazione è totale. «Mentre per mesi c’è stato uno spirito di resistenza, adesso quella fiamma si sta spegnendo».

Lo ha detto Mahmmoud, che prima del 7 ottobre faceva lo psicologo in un centro giovanile. Per anni ha aiutato ragazzini e adulti a superare i traumi della guerra, e le sue attività hanno sempre avuto successo. Questa volta, però, è diverso. «La gente ha la convinzione che prima o poi morirà, in un modo o nell’altro», spiega Mahmmoud, «e quindi si lascia andare. Anche i bambini li vedo vagare come zombie, senza uno scopo preciso, senza un sorriso anche se sono in giro in bicicletta».

Terapia fra le bombe

Tra un bombardamento e l’altro, tra un accampamento e l’altro, lo psicologo cerca ancora di fare terapia. Siede in cerchio con i bambini e prova a smontare le loro paure. «Prima li facevo disegnare, ma adesso non c’è più il materiale, oppure li facevo camminare tenendo in bilico una grossa piuma di struzzo, per allentare la tensione e concentrarsi, però ora sono tutte bruciate». A Gaza non ci sono più molte prospettive, soprattutto ora che anche questo tentativo di accordo sembra svanire.

I media palestinesi dicono che Israele ha già pianificato una nuova offensiva nel centro della Striscia, e infatti in queste ore tutti coloro che vivono nella zona tra Nuseirat, Zawayda, Maghazi e Deir al Balah stanno di nuovo scappando via. «Non si sa bene dove andare, perché nessun luogo è sicuro», spiega la giornalista Noor Shirzad. «La maggior parte sta andando verso le spiagge di Al Zahra e si sta accampando sulla battigia, proprio vicino al mare. Anche se non è un luogo molto riparato», spiega, «almeno c’è l’acqua del mare per lavarsi o fare i bisogni. E la sabbia assorbe lo sporco». All’enorme problema della mancanza di cibo si sta aggiungendo l’emergenza sanitaria. In tutta la Striscia, ma soprattutto nelle località più affollate, oramai le strade sono ricoperte da liquami e da montagne di spazzatura. Durante la guerra le uniche due discariche che c’erano sono state distrutte, e adesso ci sono quasi duecento immondezzai improvvisati che, però, non sono isolati e soprattutto traboccano.

Secondo una stima del Programma di sviluppo delle Nazioni unite (Undp) che da tempo gestisce la raccolta dei rifiuti a Gaza, in otto mesi di guerra sono stati distrutti diversi chilometri di rete fognaria e di rete idrica. Il che ha portato a una esondazione degli scarichi e a una contaminazione dell’acqua potabile. «Lo spostamento di massa della popolazione verso le aree meridionali e centrali della Striscia, insieme alle limitazioni di carburante, ha creato delle emergenze difficili da gestire». Lo ha detto Tareq Al Habbash, direttore esecutivo del Jsc, il piano di sviluppo per la raccolta dei rifiuti a Gaza.

«Prima della guerra», spiega Al Habbash, «i governatorati meridionali di Gaza generavano 600 tonnellate di rifiuti al giorno, destinati alla discarica di Al Fukhari. Attualmente, la produzione giornaliera di rifiuti è salita a 1.400 tonnellate, superando la nostra capacità di recuperarli».

Malattie e sovraffollamento

I bombardamenti di questi mesi hanno distrutto le strutture del Jsc, compreso l’edificio principale, l’officina di manutenzione e i magazzini. Inoltre, dopo che la più grande delle due discariche di Gaza, quella di Al Fukhari, è stata resa inagibile, sono state individuate piccole discariche non ufficiali dove, però, il conferimento è difficile. «Al momento», ha detto ancora Al Habbash, «con pochi mezzi che per altro sono senza benzina, il Jsc è costretto a fare affidamento su una raccolta manuale che, però, richiede più tempo e manodopera, da pagare». «Purtroppo, anche se ognuno di noi cerca di fare il meglio, è difficile mantenere un discreto livello di igiene», spiega ancora la giornalista Noor, «e temo che ci siano già in corso delle epidemie. Magari non sono state ancora dichiarate», aggiunge, «ma so per certo che ci sono persone con l’epatite A e con sintomi di colera». Non ci sono nemmeno le medicine per curarli. Ai rifiuti solidi si aggiungono poi i resti dei cadaveri che sono rimasti sotto le macerie e che è impossibile recuperare.

«In alcune zone di Dei al Balah c’è molta puzza», racconta l’insegnante Rana Al Magawi, «si sente odore di cadavere e quando lo respiri, è come se sentissi il tuo stesso corpo che marcisce. È come un memo costante della morte che incombe». Poi ci sono i morsi di zanzare, dei pidocchi, delle zecche che stanno colpendo soprattutto i più piccoli e stanno facendo insorgere anche delle infezioni cutanee. Cose che, di per sé, non sarebbero gravi, ma senza acqua pulita o sapone sono difficili da curare e potrebbero portare all’insorgenza di altre malattie. Il sovraffollamento delle zone centrali di Gaza non aiuta.

Migliaia di famiglie sono arrivate giusto qualche giorno prima del bombardamento sulla scuola di Nuseirat, lasciandosi alle spalle il sud della Striscia. A Rafah sono rimasti ormai diverse migliaia ma quei pochi corrono un grave pericolo. «È quando l’attenzione dei media e le telecamere si spostano che succedono le cose peggiori», dice il giornalista Hassan Isdodi. Per registrare il suo video messaggio è posizionato contro un muro sgretolato, riparato dagli sguardi, perché uscire in strada è diventato pericoloso. «Ci sono i cecchini sui tetti», spiega Hassan. «Negli ultimi giorni sono state colpite molte persone, uomini e donne. Sparati dall’alto e centrati in mezzo al cuore o in testa».

Israele sta espandendo le operazioni a Rafah e anche in queste ore sta continuando a bombardare. «C’è ovunque puzza di corpi bruciati, ma chi vive da tutta la vita a Rafah non se ne andrà».

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