Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Questo Comune che ha donato prebende, stipendi e aree fabbricabili, paga attualmente tre milioni e mezzo ogni ora di interessi passivi. Ogni secondo che passa mille lire, ogni secondo mille... Praticamente tutto il gettito utile che affluisce alle casse cittadine, da ogni direzione, compresi servizi e tasse, non è molto di più.

Poiché c’è anche questo: che una città burocrate paga molte tasse allo Stato che infallibilmente gliele sottrae dagli stipendi, e pochissime al Comune. E viceversa una città di burocrati ha un’infinità di esigenze in fatto di servizi pubblici, che debbono essere garantiti dal Comune: ha bisogno di trasporti efficienti, di un’illuminazione regolare, vuole le strade pulite, lo spazio per i parcheggi delle auto.

In un anno il Comune di Messina incassa cinque miliardi e dovrebbe spenderne ventidue, esattamente diciassette in più di quello che potrebbe. Il sindaco Celeste dice: «Il dramma di tutti gli enti locali italiani qui trova la sua tragica esasperazione. Noi abbiamo solo minuscole industrie da tassare, commerci che vivono precariamente, turisti che arrivano e subito se ne vanno. Incassiamo cinque miliardi. Ogni anno dobbiamo pagare dodici miliardi di soli stipendi, almeno quattro miliardi di interessi passivi alle banche che ci hanno prestato soldi, mezzo miliardo all’Enel per fornitura di energia.

La legge ci impone inoltre di pagare lo stipendio ai bidelli delle scuole, di provvedere alla manutenzione delle aule e degli uffici della giustizia. Infine la legge ci impone anche di municipalizzare i servizi di pubblico trasporto. Ad occhio e croce un altro passivo di mezzo miliardo.

Alla fine d’ogni mese l’istituto di credito che deve anticiparci i soldi degli stipendi, ricomincia a fare i suoi conti preoccupati, esita. Nello scorso autunno ci fu un mese di ritardo nel pagamento degli stipendi. Immaginate quattrocentomila famiglie senza stipendio, e non importa a questo punto sapere quanti di quegli stipendi fossero stati egualmente conquistati. Metà del commercio cittadino, il più minuto, fu sull’orlo del fallimento...

Benedetto Celeste ha la faccia e il tono di un trascinato alla poltrona di sindaco con le baionette alle reni. Gli avversari dicono che era l’unico sindaco possibile oramai, poiché, in mezzo al ribollire di tanti scandali, era l’unico anonimo personaggio che potesse stare a quel posto. Altri, più saggiamente, dicono che egli è l’unico che invece sappia fare di conto e quindi sappia amministrare.

Ha poco più di quarant’anni, è alto, quasi calvo, con un viso placido e malinconico. È il gestore del Totocalcio per la Sicilia orientale, parlando di miliardi lo fa con la naturalezza di chi è abituato a distribuire e rispettare il denaro degli altri.

Si vede subito che ha accettato quell’incarico per cercare di spendere di meno e raggranellare quanto più sia possibile, qua e là, per il Comune. Lo fa con la bonomia paziente ma anche con la borghese circospezione del capo di famiglia che vuole provvedere a rattoppare le scarpe rotte di casa, piuttosto che organizzare una grande villeggiatura.

Purtroppo qui a Messina - dice - non esiste una sola verità fondamentale sulla quale si sia tutti indiscriminatamente d’accordo. Nemmeno sul Ponte. Esistono solo opinioni, magari dotte, ma sempre contrastanti. Qui abbiamo torrenti che appestano la città, ma molti vorrebbero per esempio spendere uno o due miliardi per la ricostruzione, tal quale era una volta, dell’antico teatro Vittorio Emanuele. Vogliono una stagione lirica! Noi inseguiamo ancora chimere dall’epoca del terremoto. Chi vuole la lirica può vedersela in televisione...

Il teatro Vittorio Emanuele ha una storia esemplare nella cronaca messinese. Risparmiato dal terremoto, rimase in piedi, un po’ crepato, con i calcinacci scrostati, e per anni i messinesi gli girarono alla larga, convinti com’erano che dovesse crollare. Era piccolo, per appena cinquecento spettatori, di linee semplici e gradevoli, aggraziato, ed in fondo rappresentava la vecchia Messina, la borghesia antica, colta e intelligente. Più gli anni passavano e più cresceva l’affezione dei superstiti per questo monumento.

Un giorno cominciarono i lavori di restauro: dovunque nell’interno furono eretti piloni di cemento, gli si costruì dentro un piccolo scheletro possente. Ma la paura era troppa ancora: si disse che al momento in cui fosse stato gremito di spettatori sarebbe sprofondato di colpo, come inghiottito da una botola.

Il terrore fermò i lavori. Passarono altri anni. Ci furono commissioni di collaudo, tecnici pazienti che misurarono, sondarono, provarono. Alla fine si concluse che il teatro era in perfette condizioni di stabilità, e poteva essere adibito alla sua funzione. Non restava che da completare l’interno, rifare la sala: costruire i palchi, il palcoscenico, il sipario, i corridoi, gli impianti, gli stucchi, le poltrone, i velluti, i dipinti, i tappeti. Un miliardo di lire! E scoppiò la polemica.

Da una parte i vecchi, quelli che erano nati prima del terremoto o comunque erano disperatamente aggrappati alle memorie della vecchia città come alle sole cose valide, dall’altra i giovani: «Pazzi – gridarono costoro –. Spendere un miliardo, per un piccolo vecchio teatro di cinquecento posti? Demoliamolo invece e facciamone una grande sala moderna per duemila spettatori. Un teatro in condizione di dare veramente alla città qualsiasi tipo di spettacolo moderno».

Discutono sotto gli alberi di piazza Cairoli, polemizzano con la rassegnazione garbata di coloro i quali sanno che tanto i miliardi non ci sono. I vecchi sono irriducibili, ma dentro sanno di dover morire senza poter acclamare una «Manon Lescaut», i più industriosi dei giovani si consolano con il «ridottissimo» del regista Mollica che, aiutato dall’Ente del turismo, ha montato quest’anno tre ottimi lavori ed ha avuto un afflusso di quasi tredicimila spettatori. La cifra è eloquente. Una città di burocrati è spesso una massa inerte nel campo delle grandi iniziative produttive, ma possiede fatalmente una grande carica di amore per i fatti tradizionali della cultura: il teatro, la letteratura, le arti, la musica.

Anche la cultura però è condizionata dal fattore economico. I grandi spettacoli hanno bisogno di un grande teatro, ma soprattutto di almeno diecimila presenze paganti. I pittori e gli scultori vogliono essere confortati sì dall’attenzione del pubblico, ma soprattutto vogliono vendere i quadri a buon prezzo. L’esibizione di una grande orchestra costa almeno due milioni, ed altrettanto uno spettacolo di balletti a livello internazionale.

In questo senso Messina non riesce ad esprimere avvenimenti o iniziative a livello della sua vocazione intellettuale o delle sue oramai lontanissime tradizioni, può consentirsi solo quello che la sua condizione borghese le permette. Esistono tre società musicali, l’Accademia filarmonica, la Filarmonica Laudano e la società Bellini, per concerti vocali; due sole gallerie d’arte di notevole prestigio, il Club della stampa e la libreria Ospe; due grandi biblioteche, la «Tommaso Cannizzaro» e quella universitaria.

La sola, autentica manifestazione a livello internazionale che riesce miracolosamente a fiorire è la Rassegna cinematografica. E quelle tremila persone, gli uomini in perfetto smoking bianco, le signore in stola di visone, che gremiscono per molte sere consecutive la grande arena della Fiera per applaudire i più favolosi nomi dello schermo, rappresentano pateticamente questa orgogliosa, intransigente presenza della società messinese nell’unico grande avvenimento di mondanità culturale.

Ci saranno venti o trenta industriali soltanto in quella folla, altrettanti o forse meno letterati e artisti, una cinquantina di liberi professionisti di fama provinciale, avvocati, medici, architetti, ed altrettanti uomini politici. Il resto sono funzionari e impiegati.

A guardarla questa folla così linda, candida, per bene, con una marea di macchine che attendono sul magnifico lungomare; a guardarla tutta questa città dove non si intravedono mani ruvide e cravatte a sghimbescio di contadini, tute e grinte rissose di operai, questa città lunghissima, bianca, affabile con i piccoli palazzi isolati l’uno dall’altro, le chiese disposte in bell’ordine scenografico sui dossi, le montagne allineate alle spalle, il mare e la Calabria di fronte, le navi traghetto come gigantesche formiche laboriose: a guardarla questa città sembra pacata e quasi contenta del suo stato.

Ma per poco che ci stai, che parli con la gente, che capisci come vanno veramente le cose, e i pensieri che ci sono dietro gli sguardi affabili, e quanto valga ogni cosa, i problemi, le illusioni, le speranze, ti rendi conto che questo è un organismo che sta fallendo, che muore continuamente.

C’è una cosa che potrebbe salvare questa dolce, magnifica città la cui fortuna o la cui decadenza condizioneranno tutta la struttura dell’Oriente siciliano: ed è il ponte sullo Stretto. Ma già la parola suona favolosa come fossimo nel quattordicesimo secolo e stessimo parlando della via delle Indie. Ma stavolta la colpa non è dei messinesi.

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