Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Prima attraversammo una strada larghissima, con una striscia di asfalto al centro e due rigagnoli di acqua fetida dall’una e dall’altra parte. Si vedevano cortili e vicoli polverosi, con decine di carri gettati agli angoli, gruppi di donne sedute dinnanzi agli usci, galline, animali da soma legati ai muri e bambini che correvano dovunque.

Poi apparve un corso, pieno di alberi in bei filari, le case basse con le terrazze, un curioso palazzo rosso e una cattedrale. I marciapiedi erano vastissimi, gremiti di tavoli, di sedie e di avventori. Le facciate pullulavano di insegne di legno: bar, circoli di cultura, partiti politici, sindacati, combattenti e reduci, fratellanza operaia, agricoltori, lavoratori disoccupati, artigiani. C’era persino un circolo dei pensionati della previdenza sociale.

Ogni locale era brulicante di gente intenta al gioco delle carte. Infine arrivammo al porto, uno specchio d’acqua come un lago, immobile, vitreo, cento barche lungo una cala deserta, un vecchio rimorchiatore che cadeva a pezzi, un ammasso di ancore e catene che si disfacevano in un angolo del molo. Tutte le strade attorno al porto erano completamente deserte. Così ci apparve Licata. Un intellettuale ci spiegò Licata. Era un uomo alto, magro, tragico, con la pelle scura e lucida.

Era laureato e poteva avere trentacinque anni. Il suo sarcasmo era di una indicibile tristezza, pareva un uomo che stesse parlando di cose futili e ne sorridesse, e d’un tratto però dovesse aprirsi la giacca sul petto e mostrare un piccolo foro sanguinoso: «Chiacchiere! Vedi? Io sono morto! Abbiamo perduto tempo!». Mi disse: «Io sono di Licata, vivo a Licata e probabilmente ci morirò. Licata è una città dove non c’è niente: non c’è lavoro, non ci sono fogne, la terra è arida e male coltivata, non c’è acqua per lavarsi e talvolta nemmeno per bere. Tuttavia non è vero che la nostra sia una città povera. Noi produciamo questi, valgono oro!».

Indicò una decina di ragazzi di otto o dieci anni che giocavano ai margini del marciapiede. Avevano delle magliette logore, le teste rapate, erano esili ma legnosi, avevano delle strane gambe magrissime, ma con le ossa dei ginocchi grosse e sporgenti come quelle dei bovini, le spalle aguzze, erano neri di sole e sicuramente anche di sporcizia. Giocavano in modo curioso. cioè correvano o si spingevano o si gettavano a sedere stanchi sullo scalino, senza motivo alcuno. Probabilmente essi giocavano con niente. L’intellettuale li osservò, senza tenerezza, come se li stesse valutando.

Continuò: «In questo territorio si muore più facilmente che altrove, ci sono più malattie, provocate dalla denutrizione. Molta gente, soprattutto fra i contadini, ha la tbc senza saperlo; ha visto come giocano a carte cinquanta persone in una stanza di venti metri quadrati? Respirano fumo, fetore, aria malsana. Facciamo conto dunque che muoiano cento persone al mese. Poco male, tuttavia, poiché qui nasce molta più gente che altrove, almeno, duecento in un mese, o anche trecento, soprattutto in autunno, perché sono i mesi che corrispondono alla concezione invernale. Diciamo che in media l’eccedenza è di cento individui al mese. Noi perciò produciamo cento esseri umani al mese, alcuni dei quali decedono negli anni dell’infanzia. Ma la maggior parte di loro continua a crescere finché diventano uomini. Il venti per cento sono analfabeti, il quindici per cento hanno tare fisiche derivanti dalla tragica infanzia. Il settanta per cento non hanno alcuna specializzazione di lavoro, sanno fare soltanto lavori in cui è necessaria resistenza fisica, capacità di sofferenza e forza muscolare. Sono diventati così poiché non hanno mai avuto altra possibilità di scelta. Ad ogni modo, nell’età fra i venti ed i quarant’anni costituiscono un prodotto finito!» Parlava con una cupa tranquillità, usando termini proprio come se stesse parlando di oggetti, di patate, di mattoni, di petrolio, di zolfo.

La collera che aveva covato per tanti anni dentro gli si era aggrumata come una pietra, non aveva più scintille, né scorie o violenze da cui la sua anima potesse restare ferita. Era un blocco di rancore e di rassegnazione: gli pesava dentro e basta! Continuò a dire: «Di questi trecento esseri umani che arrivano all’età del lavoro ne esportiamo ottanta. A Milano, a Parigi, ad Amburgo, a Londra. Sono richiesti da tutto il mondo. Se ci fosse una borsa valori per gli uomini come per i diamanti o per il concime, gli uomini di Licata rappresenterebbero una delle qualità di eccellenza. Naturalmente esportiamo i più solidi e vigorosi. Sono uomini che hanno una straordinaria pazienza, possono lavorare anche otto o dieci ore al giorno con qualsiasi clima, nelle campagne, nelle miniere, a costruire ferrovie, ponti; lavorano con venti gradi sottozero oppure negli altiforni. Ognuno di questi uomini, frutta in media quattrocentomila lire al mese all’economia cittadina, poiché questa è la media delle rimesse degli emigranti alle famiglie. Orbene in otto anni noi abbiamo esportato circa diecimila esseri umani all’estero. Qui ci siamo tenuti i vecchi, gli ammalati, i deformi, quelli che non vogliono lavorare, i borghesi o più semplicemente quelli che avevano di che sopravvivere. Calcolando dunque che ogni emigrante invia alla famiglia circa quattrocentomila lire al mese, ne deriva che tutti gli emigranti inviano al paese non meno di quattro miliardi al mese, cioè 48 miliardi l’anno. Quando dicono che qui non produciamo niente, né ortaggi, né minerali, né tessuti, e perciò siamo un paese miserabile, dicono una bestemmia. Quale altro paese riesce a garantire il lavoro a diecimila persone e assicurare all’economia di una piccola città un introito annuo di cinquanta miliardi l’anno? Il petrolio di Ragusa? Fa ridere il petrolio. Rende meno della metà! Per giunta il petrolio non cambia niente: uno stantuffo che pompa dal ventre della terra, quattro operai che guardano con un elmo rosso in testa, chi è cafone o analfabeta resta tale. Qui è diverso. Ci sono diecimila di noi all’estero. Anche coloro che non sanno leggere e scrivere si dirozzano, imparano a parlare la lingua del posto. a volte visitano anche i musei, imparano a ballare, discernono la qualità dei cibi, conoscono città famose: Amburgo, Parigi. Liverpool, Monaco di Baviera. Quando tornano, anche i professori restano a bocca aperta».

«Inoltre all’estero imparano un mestiere moderno, imparano a conoscere le donne, non so se mi spiego, le donne come diletto della vita e non come movente di onore. Noi stiamo diventando una città di mentalità e di livello europeo. Ogni tanto qualcuno di loro torna con quattro soldi a comprarsi la terra. Però per cento che ne tornano, duecento ne partono. La produzione è in incremento!». Improvvisamente l’intellettuale deflagrò in una risata così piena di umiliazione, di scherno, di disprezzo, che parve pazzo.

Mi fissò con due occhi rotondi: «lo non mi lavo da un mese - disse - lavarmi veramente, cioè, con l’acqua che ti scorre addosso, il sapone. Acqua e sapone che ti scorre su tutto il corpo. Guardi, guardi…».

Infilò due dita nel colletto, scostandolo; aguzzò il collo rattrappendosi tutto in faccia, quasi offrendo un varco fra la camicia e la pelle dove l’occhio potesse penetrare per il dolore, l’aberrazione della sua sporcizia fisica. Mi guardava come se dietro di me ci fossero tutti gli altri siciliani, tutti gli altri italiani che non sanno quello che accade a Licata, e non vogliono saperlo, e se gli accade di conoscerlo non gliene frega proprio niente.

Disse: «Siamo ai confini del mondo, viviamo prigionieri, siamo in fondo all’abiezione, non abbiamo acqua, nelle case, né fognature per liberarci dalle nostre stesse miserie, né strade per camminare. E non abbiamo nemmeno amore per noi stessi, riconoscenza, rispetto, quella forza terribile e collettiva che la disperazione riesce a volte a suscitare nell’animo della gente. Siamo morti, i nostri diecimila uomini migliori li abbiamo esportati, erano i più giovani, quelli che avrebbero potuto lottare, ribellarsi. Siamo rimasti i vecchi, gli imbelli, i più rissosi, gli storpi, i paralitici, quelli che hanno definitivamente perduto la loro battaglia.» Fece un sospiro e si concentrò con disperazione. Voleva completare il racconto della sua città; proseguì con voce bassa, descrittiva: «Abbiamo un teatro comunale ma non funziona! Abbiamo una splendida biblioteca con diecimila volumi ma è letteralmente in rovina poiché non c’è nessuno che se occupi. Abbiamo tre cinema e due sale da bigliardo! Non c’è mai stata una conferenza, un’occasione per imparare, una rassegna d’arte. Tutto è deserto, triste, silenzioso; questa è una città circondata da altissime mura e noi ci siamo calati dentro come in una tomba. Giochiamo a carte. Ha visto? Si gioca a carte dovunque, nei circoli, società, sodalizi, caffè, congreghe. Ad un certo momento si ha l’impressione che la maggior parte di questa popolazione si stia preparando ad una specie di gigantesco campionato di giochi a carte. Briscola coperta e scoperta, tressette, terziglio, ramino, scala quaranta, scopone classico e scientifico. Stanno aggrumati in otto o dieci attorno ad un tavolo, quattro che giocano e gli altri che guardano, cinque, otto tavoli in una stanza, e le stanze gremite, gli adolescenti contro i vecchi o in coppia tra loro. Giocano con una serietà, una capacità di concentrazione come se fossero straordinariamente compenetrati dell’importanza di quello che fanno. Accade che a volte, in determinati ambienti, dopo anni di consuetudine al gioco, dopo che tutt’intorno la società ha murato qualsiasi altra possibilità di evasione o di scelta, un individuo cominci ad essere valutato per la sua abilità nelle carte, per la sua intuizione o manovra nel gioco, per la sua audacia o capacità di meditazione. Giocano tutti: i contadini, i disoccupati, i manovali, gli impiegati, i professionisti, i benestanti, i poveri, i pescatori. Giocano per mancanza di un’alternativa nel loro tempo libero, per rassegnazione, per abitudine, per soffrire meno la loro condizione, perché il gioco delle carte, fra tutte le arti inventate dagli uomini è quello che dà una più costante sicurezza di essere vivi, di continuare a lottare, restando però immobili su una sedia contro altre persone anch’esse immobili e che domani ritroverai infallibilmente sedute allo stesso posto. Fino ad un certo livello, giocano senza differenza di censo, contadini, manovali, meccanici, operai, poi c’è uno stacco, un gradino, ci sono i borghesi che giocano tra di loro.

La gente più povera li chiama «cavallacci» che è un termine antico per indicare i nobili, la gente, dotata di cavallo. Non c’è odio oramai in questo termine, né disprezzo, forse soltanto il rammarico per essere coinvolti nello stesso destino, dimenticati qui in fondo all’Europa e tuttavia non poter giocare una bella briscola insieme». 

Aveva finito. Si tolse gli occhiali, estrasse un fazzoletto incredibilmente candido, lo prese proprio adagio dalla tasca interna del portafogli, con la cura meticolosa, la circospezione che si usa per una cosa fragile. Pulì lentamente gli occhiali e se li rimise sul naso.

Ma aveva ancora qualcosa da dire che gli pesava sul cuore. Guardò quei ragazzi che avevano finito di correre e si erano seduti in fila sul gradino. Li indicò in silenzio ma con un gesto esitante, come se improvvisamente gli fosse scoppiata dentro una trascinante tenerezza, un bisogno di speranza per qualcosa, per qualcuno.

«Sono magri» mormorò «sono così piccoli, così deboli! Tuttavia cresceranno e diventeranno uomini. Fra dieci anni questo bambino sarà in Australia, quell’altro sarà nel Canada o nelle miniere del Belgio. Molti di loro resteranno piccoli di statura e gracili. Certo se lei va in Germania o in Olanda, non trova mai uomini rachitici o nani o deformi. La floridezza fisica degli individui dipende dal cibo che mangiano quando sono ancora fanciulli. Anche l’intelligenza, sa? La miseria e il bisogno aguzzano il cervello, lo rendono continuamente famelico; pronto a scattare come un cane, pronto a scattare per mordere; ma quella non è intelligenza, è astuzia, scaltrezza, istinto. Oppure quando l’anima riesce a sopraffare la disperazione si riesce talvolta ad esprimere poesia. Ma nemmeno la poesia è intelligenza, poiché l’intelligenza ha bisogno di essere esercitata da un corpo sazio. L’intelligenza è quella che produce le ottime leggi, che crea le macchine più razionali, che esclude i vizi, che calcola la resistenza del metallo, la velocità degli aerei, inventa i sieri per le malattie, le armi più micidiali per uccidere. Il genio dell’affamato è innocuo ed inutile, è cupo, affannoso, intristito da mille problemi per sopravvivere. Le grandi soluzioni lo schiacciano. La Regione ha varato anni or sono uno stanziamento di venti miliardi per bonificare la zona, ma non siamo riusciti nemmeno a far funzionare la commissione per l’utilizzazione degli stanziamenti. Abbiamo fatto dieci crisi politiche, ci azzanniamo per le molliche, lottiamo per spodestare il rivale dalla poltrona di comando, lottiamo con tanta astuzia. convinzione, alacrità, furbizia e maleficio che vi riusciamo quasi sempre. E il problema che quel nostro rivale avrebbe potuto risolvere resta tragicamente tale né noi saremo capaci di risolverlo, poiché i nostri rivali riusciranno a loro volta con astuzia. cavilli, trappole, incidenti, crisi e malefici a toglierci la poltrona di sotto. Così è Licata, quelli che siamo rimasti a Licata…»

Si tolse gli occhiali di nuovo, e improvvisamente gli occhi divennero smorti, la pupilla nera sembrava gli tremasse dietro un’ampollina di acqua, le lacrime non si vedevano ma gli gonfiavano la fronte. Finì: «Sarei voluto andar via da qui come gli altri diecimila! A volte ho calcolato qual è il prezzo di un uomo. Cinquanta miliardi l’anno di reddito estero per la città diviso il numero degli emigrati. Il prezzo di un uomo, di ogni vita che nasce, è di cinque miliardi di lire. E poco, è poco! Ma io qui valgo ancora di meno, io non so se riusciremo mai a costruire le cose necessarie alla vita, un nuovo acquedotto, le fogne, la scuola. Però sono sicuro che riusciremo, sempre, l’uno a sconfiggere l’altro… Io sono uno di quelli…»

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