Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo il libro “L'illegalità protetta”, edito per la prima volta nel 1990 e ristampato nuovamente da Glifo Edizioni, dedicato a Rocco Chinnici e ai giudici del pool antimafia


Signor giudice, lei ha ricevuto minacce di morte?

L’interlocutore sorride e per un attimo resta a guardarci con curiosità, come se noi avessimo posto una domanda per scherzo.

Sembra quasi voglia capire fin dove la nostra domanda possa essere ritenuta candida e non ci sia invece una punta di impercettibile sarcasmo. Continua a sorridere, però amabilmente. Fa uno strano gesto interrogativo a sua volta e risponde con una domanda: «Lei che ne pensa?»

Stiamo parlando con il giudice istruttore di Palermo, dottor Rocco Chinnici. Siamo a Siracusa in una giornata di sole e di vento subito dopo la conclusione del convegno «I giovani siciliani contro la mafia».

Siamo usciti da un teatro che era gremito di almeno duemila studenti, abbiamo ancora ne-

gli orecchi e soprattutto nell’animo migliaia, decine di migliaia di parole che abbiamo ascoltato, talune inutili, altre retoriche, altre sinceramente appassionate, altre infine serie e importanti. Parole di giovani che hanno espresso il loro pensiero sulla mafia, sulla necessità di una lotta che va condotta anzitutto nelle coscienze, sui metodi stessi della lotta.

In Sicilia negli ultimi mesi ci sono stati decine di convegni del genere, in cui sono state spese milioni di parole, quasi sempre le stesse. È come se tutta la società siciliana urlasse il suo sdegno, il suo dolore, la sua ribellione alla violenza mafiosa. Ma nella realtà tutto appare retorico: che i siciliani siano onestamente, disperatamente contro la mafia, è chiaro e saputo. Bisogna capire, e ancora stiamo cercando di capire, come i siciliani possano essere contro la mafia, con quali idee, con quali proposte, con quale intransigenza. Soprattutto i giovani.

In questo stato d’animo continuiamo il nostro discorso con il giudice Chinnici, uno dei magistrati che più acutamente, con maggiore intelligenza anche giuridica, sta cercando di condurre la sua lotta. È un uomo che non indietreggia. Sa che ogni giudice è nel mirino della mafia e sa esattamente che, se vuole continuare ad essere giudice, cioè a campare con la sua intatta dignità di magistrato e di uomo, deve accettare questo pericolo.

Giudice Chinnici, la mafia ha colpito ancora una volta, e sempre con l’identica ferocia, un altro magistrato, Ciaccio Montalto, un magistrato che da anni era in prima linea nella zona di fuoco di Trapani, per la quale passa buona parte del contrabbando di droga.

Era un giudice che sapeva di poter essere assassinato. Perché allora si è fatto cogliere solo e indifeso? Anche Terranova e Costa vennero colti soli e indifesi, ma erano altri tempi. Sono trascorsi due anni ma è come se fossero trascorsi due secoli. Perché Ciaccio Montalto si è fatto cogliere indifeso?

È una domanda difficile. Io opero in una sede giudiziaria diversa e quindi anche in un contesto diverso. Per quanto riguarda la protezione fisica del magistrato posso dirle che negli ultimi tempi a Palermo sono stati compiuti notevoli progressi: ci sono diverse auto blindate a disposizione, e sono anche molti gli uomini disponibili per la scorta armata. Comunque sufficienti.

È difficile oggi ammazzare un giudice a Palermo, o comunque ucciderlo come è stato ucciso Ciaccio Montalto. er quanto io sappia anche a Trapani ci dovrebbe essere un’auto blindata a disposizione dei magistrati. Si tratta ora di capire perché non venne utilizzata. A parte l’auto blindata, resta il fatto che il giudice assassinato era solo, senza scorta. Spesso accade che un giudice, da solo, abbia più mobilità, più possibilità quindi di sfuggire a un agguato. Ma queste sono ipotesi. o conoscevo Ciaccio Montalto per il suo coraggio e soprattutto per l’impegno che egli poneva contro la criminalità politica.

Per lui non solo il terrorismo, ma anche la mafia era criminalità politica. Ebbi occasione di discutere questo aspetto del nostro lavoro pochi giorni prima che fosse assassinato, proprio al convegno di coordinamento fra magistrati impegnati in questo tipo di lotta. d era soprattutto un magistrato il quale credeva in una profonda riforma dei metodi di lotta alla mafia. Era convinto che uno strumento essenziale di lotta alla mafia fosse la cosiddetta legge La Torre. La mafia ne avrebbe subito un colpo mortale.

Ecco, giudice, ma secondo lei che ogni giorno si ritrova dinnanzi questa forza oscura e crudele che sembra onnipossente nella nostra società, cos’è realmente la mafia? Potrei darle un semplice giudizio storico, e dirle che da 150 anni ci trasciniamo questo fenomeno mortale nato fondamentalmente dalla necessità di difendere comunque la proprietà, e dunque anche il privilegio, contro qualsiasi stravolgimento della società, dal banditismo alle scorrerie dei briganti, alla miseria dei contadini che si trasformavano in predoni, alla stessa evoluzione della società. La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. rima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi.

La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. E in questa definizione, in questa immagine è possibile inserire l’ipotesi di un connubio costante fra mafia e politica? La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio.

Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini. ella intervista resa il mese scorso dalla figlia del generale dalla Chiesa, la giovane donna affermò senza mezzi termini che l’assassinio del padre era stato un fatto politico e che anche il dopo assassinio viene manovrato da una sorta di grande puparo politico, una specie di grande vecchio della mafia, in altre parole un burattinaio che tira le fila della mafia.

Può essere che egli sia a Palermo, può essere che sia a Roma. Lei è d’accordo? Non so in quale contesto Rita dalla Chiesa situi questo personaggio, a quali livelli di potere, e con quali interessi. Non basta una definizione del genere. Bisognerebbe chiarire o comunque approfondire questo pensiero. Una cosa è certa, e su questo sono d’accordo con Rita dalla Chiesa: esiste una connessione profonda fra mafia e politica, e può anche essere che l’assassinio del prefetto sia soprattutto un delitto politico. Può essere, ripeto, ma non è detto che lo sia! È stato detto tutto e il contrario di tutto, anche che dalla Chiesa sia stato ucciso perché oramai sapeva troppe cose, oppure anche perché voleva fare troppe cose. Per ogni ipotesi può cambiare il mandante.

© Riproduzione riservata