Qualche giorno fa, ho ritrovato in fondo a un cassetto una vecchia foto, la data scritta sul retro dice “8 settembre 2001”. Nelle foto sono con degli amici americani. È sabato pomeriggio. Abbiamo preso il battello per fare il giro dell’isola di Manhattan. Sorridiamo. Il vento, che soffia dal porto verso la foce del fiume Hudson, ci sferza il viso. Siamo tutti ventenni, già laureati, ricercatori in diverse discipline. Il ragazzo al centro si sta specializzando in medicina interna, io studio relazioni internazionali. Sullo sfondo le Torri gemelle brillano nella luce dorata del tramonto. Siamo felici, spensierati, pieni di progetti.
La torre che crolla
Tre giorni più tardi è l’11 settembre. Sono passate da poco le nove e mezzo del mattino. La ragazza nella foto mi chiama al telefono per dirmi che due aerei di linea si sono infilati nei grattacieli del World Trade Center. Sono una studentessa con pochi soldi e non ho la televisione.
Esco di casa di corsa, inciampo mentre scendo le scale. Entro nel bar all’angolo, i pochi clienti seduti al bancone sembrano impietriti di fronte alla televisione. Non capisco bene cosa stia succedendo – una sensazione di incredulità e smarrimento che avrei provato ancora una volta solo venti anni più tardi con l’inizio del lockdown a New York.
È in quel momento che vedo crollare la Torre sud, quella colpita dal secondo aereo. Tutti gridano. Il barman, atterrito, lascia cadere il vassoio con le tazze del caffè. Esco dal bar ed entro in una cabina telefonica. Devo chiamare i miei genitori in Italia per avvertirli che sono al sicuro, ma tutte le comunicazioni sono interrotte. Provo ancora molte volte a digitare il numero ma il ricevitore mi restituisce solo un insistente segnale di occupato.
Ve lo siete meritato
Dodici ore più tardi, sono nella sala d’attesa del pronto soccorso vicino casa. Tutti i medici sono stati richiamati in ospedale – c’è anche il mio amico internista – ma di feriti ne arriveranno pochi, sono morti tutti. Ho troppa paura per rimanere a casa da sola e mi convinco, ingenuamente, che se ci dovesse essere un altro attacco gli ospedali verrebbero risparmiati.
È al pronto soccorso che trascorro la notte. Alla televisione, la Cnn continua a mandare in onda i video dell’attentato.
Distolgo lo sguardo, quelle immagini mi fanno stare male. Nelle mente, da ore, si rincorrono le stesse domande: quante persone sono morte? Quanti sono i feriti? Chi è stato e perché? Ci sarà un altro attacco?
Dopo qualche ora, esce dal triage il mio amico internista per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Gli dico che l’attacco potrebbe essere stato organizzato dai fondamentalisti islamici, ma quando accenno a Osama bin Laden, lui mi dice di non sapere chi sia. «Quello dell’attacco all’ambasciata americana di Nairobi», gli rammento, ma lui scuote la testa, dice di non ricordare – venti anni fa, la maggior parte degli americani non aveva ancora mai sentito parlare di bin Laden e al Qaida.
Verso le quattro del mattino riesco finalmente ad addormentarmi, ma il sonno è breve. Le grida di un uomo mi svegliano di soprassalto. «Ve lo siete meritato», dice. «Meritavate di morire tutti!». Il senzatetto, un signore afroamericano appena arrivato in pronto soccorso, inveisce contro la televisione ancora accesa. Il World Trade Center, ricordo a me stessa in quel momento, è il centro del capitalismo mondiale. Quelle parole – ve lo siete meritato – non le ho più dimenticate. Furono in molti, e per motivi diversi, a pronunciarle quel giorno.
Dentro la storia
Nei mesi seguenti, avrei imparato che il paese di cui sarei diventata cittadina solo un decennio più tardi era odiato sia dentro sia fuori i propri confini, e che le ragioni di tanto odio rimanevano sconosciute alla gran parte dei suoi abitanti.
Una settimana dopo l’attentato, la scrittrice Susan Sontag scrisse in un editoriale per il New Yorker che l’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono non era semplicemente un atto vile, compiuto contro la “civiltà occidentale” e “il mondo libero”, ma il risultato di specifiche scelte fatte dagli Stati Uniti in politica estera, soprattutto in medio oriente.
Il presidente George W. Bush disse invece che gli Stati Uniti non avevano alcuna responsabilità per quell’attentato e che anzi avevano l’obbligo morale di impedire un altro attacco terroristico sul suolo americano. La difesa del territorio nazionale, dunque, giustificava un intervento militare in Afghanistan, il paese che proteggeva i terroristi – una guerra legittima, persino giusta, combattuta in nome della libertà, dei diritti umani e della democrazia. Dopo l’attentato, gli americani capirono, forse per la prima volta, che da quel momento in poi la scure della storia non li avrebbe più risparmiati. Il mondo si era capovolto: il loro senso di forza, di sicurezza, quasi di invulnerabilità era venuto a mancare.
Il nuovo ordine mondiale
Con l’11 settembre tramontava definitivamente l’idea coltivata nel decennio precedente che, dopo il crollo dell’Unione sovietica e la sconfitta del comunismo, tutti i paesi del mondo sarebbero diventati capitalisti e democratici. Negli anni Novanta, gli americani si erano crogiolati nell’illusione che la democrazia – che loro consideravano una invenzione e un valore occidentale – sarebbe divenuta un valore universale.
Qualcuno nel mondo accademico aveva persino affermato che con la fine della Guerra fredda non ci sarebbero state più guerre – le democrazie come è noto non si fanno la guerra. Per il politologo Francis Fukuyama, nel nuovo ordine mondiale unipolare, dominato da una sola potenza egemone, le relazioni tra i paesi sarebbero state «piuttosto ordinarie e noiose».
Nel nuovo ordine mondiale, invece, quello inaugurato dall’11 settembre 2001, non era la pace e l’armonia a regnare ma il disordine e il terrore. A quel nuovo conflitto in Afghanistan, che avrebbe attraversato ben due decenni di storia, sarebbero seguiti eventi drammatici: la prigione di Guantanamo, l’invasione dell’Iraq, le torture agli iracheni nel carcere di Abu Ghraib, la guerra civile siriana, lo Stato islamico e infine il ritorno dei talebani a Kabul.
La cena ogni sera
Nei giorni che seguirono l’11 settembre partecipammo a molte fiaccolate in memoria delle vittime. Di solito le veglie di preghiera erano officiate dai rappresentanti delle tre religioni monoteiste. Andammo anche a molti funerali, funzioni in cui non c’era mai il corpo del defunto su cui piangere.
Qualche mese più tardi, durante le vacanze di Natale a Roma, mi rividi alla televisione italiana – pochi secondi di un video in cui sono seduta a terra durante una veglia di preghiera. Tengo una candela accesa in mano. Ho la testa appoggiata sulla spalla del mio amico medico – il ragazzo che da lì a qualche anno sarebbe diventato mio marito. Negli anni che seguirono incontrai molte persone che avevano perso i propri cari nell’attacco al World Trade Center.
Ricordo un uomo in particolare, un assicuratore di Brooklyn che conobbi una sera a casa di amici. Mi raccontò che per oltre sei mesi dopo l’11 settembre aveva continuato ad apparecchiare la tavola per sua moglie che lavorava nella Torre nord – sperava che prima o poi sarebbe tornata a casa per cena. Di lei però, come di altre mille persone, non furono mai identificati i resti.
Salvato dall’Italia
Qualche tempo dopo nel mio palazzo sulla Sessantesima strada venne a lavorare un nuovo portiere, un signore di origini irlandesi di nome Joe che aveva perso il figlio nell’attentato.
Qualche volta, quando rientravo a casa tardi dall’università, Joe tirava fuori dal cassetto della portineria le foto del figlio. C’erano immagini di lui bambino, quelle del giorno della laurea e una foto con le Torri gemelle sullo sfondo, un anno prima dell’attacco.
E infine c’è il mio amico Pete, vigile del fuoco italoamericano. Ha perso tutta la sua squadra l’11 settembre 2001. Lui si è salvato solo perché quell’anno aveva portato la moglie in vacanza in Italia, voleva mostrarle il paese dei suoi nonni. «L’Italia mi ha salvato la vita», dice qualche volta scherzando. Ma da vent’anni Pete deve convivere con il senso di colpa di chi è sopravvissuto.
Tornare a ground zero
Quest’anno, in occasione del ventennale, ho deciso di visitare il museo dell’11 settembre.
In tutti questi anni non avevo mai trovato il coraggio di farlo, forse per paura di dover rivivere quel giorno. Temevo anche che un evento così complesso difficilmente potesse essere raccontato attraverso una sintesi che lo rendesse accessibile a tutti, ma ho dovuto ricredermi. Il museo si visita come se fosse un enorme cimitero, in assoluto silenzio.
Molte cose emozionano i visitatori che ne percorrono le stanze: i pilastri d’acciaio contorti dal calore, il camion dei pompieri in parte fuso dal fuoco, la gigantesca antenna della televisione che si ergeva sul tetto della Torre nord, le immagini delle persone disperse lasciate nei giorni successivi all’attentato sulla recinzione attorno a ground zero.
E poi c’è il muro dietro al quale riposano i resti delle vittime e sul quale è incisa una citazione tratta dall’Eneide di Virgilio: nessun giorno potrà cancellarvi dalla memoria del tempo. Ed è proprio così. Non voglio più cercare di dimenticare. Come tutti, ho solo il dovere di ricordare.
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