- La convinzione di Joseph Ratzinger era che alla drammatica crisi ecclesiale in atto si poteva far fronte con un irrigidimento delle misure promosse dal predecessore di cui sarebbe stato strumento un potenziamento del ministero papale.
- Per quanto riguardava il rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, il papa faceva rientrare nella tradizione anche assai recenti concezioni teologiche, in particolare la rielaborazione dell’eredità controriformistica compiuta dall’intransigentismo cattolico otto-novecentesco.
- Questo atteggiamento è emerso sul piano esteriore con la decisione di rimettere in auge abiti (il saturno, il camauro), paramenti liturgici (il pallio, le mitrie e i piviali tradizionali), oggetti (la ferula e il tronetto di Pio IX) da tempo abbandonati nelle apparizioni pubbliche dei pontefici del post-concilio.
Questo articolo è apparso in origine su Settimananews
Nell’aprile 2005 un rapido conclave, durato due giorni, portava all’elezione al governo della Chiesa universale di Joseph Ratzinger, dal 1981 uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Poalo II.
In quell’anno Wojtyla lo aveva infatti sollevato dalla guida della diocesi di Monaco, che reggeva dal 1977 dopo una lunga carriera trascorsa nelle università tedesche come professore di teologia prima a Tubinga poi a Ratisbona, ponendolo alla direzione della Congregazione per la dottrina della fede.
Nonostante l’età ormai avanzata (era nato nel 1927), la scelta del conclave appariva abbastanza prevedibile.
Il cardinale aveva svolto negli ultimi tempi all’interno della curia romana ruoli cruciali: decano del sacro collegio dal 2002, nel marzo 2005 aveva guidato la via Crucis in sostituzione dell’ammalato pontefice; aveva poi presieduto la messa per le sue esequie ed aveva infine presieduto le celebrazioni liturgiche pro eligendo romano pontefice.
L’eredità di Giovanni Paolo II
In queste occasioni – ed in altri interventi di quei giorni, come una celebre conferenza tenuta a Subiaco sull’Europa nella crisi delle culture – i suoi discorsi presentavano una tesi di fondo: alla drammatica crisi ecclesiale in atto si poteva far fronte con un irrigidimento delle misure promosse dal predecessore di cui sarebbe stato strumento un potenziamento del ministero papale.
Si può dunque pensare che i cardinali elettori abbiano ritenuto di dover conferire il governo della Chiesa universale ad una personalità che, trovandosi da più di due decenni al centro degli affari ecclesiastici, aveva formulato una diagnosi e proposto una terapia per affrontare la difficile eredità lasciata da Giovanni Paolo II.
Non c’è dubbio che le misure promosse dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede negli anni precedenti avevano sollevato nella comunità ecclesiale diverse perplessità e critiche.
Basta pensare alle censure nei confronti della teologia della liberazione, al confinamento della funzione ecclesiologica delle conferenze episcopali al piano pratico-pastorale, alla proclamazione della definitività delle proposizioni espresse dal magistero in materia di fede e di costumi, al trasferimento di competenze sui casi di pedofilia del clero dalla Congregazione del clero all’ex-Sant’Ufficio, una misura che finiva per aumentare la segretezza attorno a vicende su cui era esplosa la richiesta di trasparenza.
Ma è anche vero che Ratzinger godeva di un certo prestigio in ambienti progressisti: era stato uno dei periti più in vista del Concilio Vaticano II, dove aveva collaborato con l’arcivescovo di Colonia, Josef Frings, un autorevole esponente della corrente innovatrice. Aveva in particolare sostenuto con puntuali argomentazioni teologiche l’approvazione della costituzione sulla Chiesa Lumen gentium.
Nonostante il successivo scontro con Hans Küng, non aveva mai abbandonato il richiamo all’assise ecumenica, anche se aveva sottolineato che solo al magistero spettava la corretta interpretazione delle sue deliberazioni.
Poteva insomma apparire una scelta richiesta dalle complesse condizioni del momento affidare al cardinal Ratzinger l’attuazione di una linea capace di mantenere la fondamentale istanza conciliare – che, in termini generali, si può identificare in un rinnovamento della Chiesa allo scopo di restituirle efficacia apostolica nel mondo contemporaneo –, adeguandola poi nelle sue concrete applicazioni alla difficile situazione ecclesiale su cui egli stesso aveva richiamato l’attenzione.
Perché Benedetto
Il nuovo pontefice – che assunse il nome di Benedetto XVI non solo in omaggio al messaggio di pace che Della Chiesa aveva lanciato nel mondo dilaniato dalla Grande guerra, ma anche, e assai significativamente, in ricordo di san Benedetto da Norcia che si era prodigato nell’evangelizzazione del mondo pagano – avrebbe ben presto ribadito l’ancoraggio delle sue posizioni al Vaticano II.
Ma avrebbe anche chiarito che nell’interpretarlo il magistero doveva filtrare l’esigenza di adeguamento della Chiesa ai tempi moderni alla luce di un principio supremo: la continuità della tradizione.
Naturalmente il principio, di per sé, costituiva un’asse portante della dottrina cattolica; ma, per quanto riguardava il rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, il papa faceva rientrare nella tradizione anche assai recenti concezioni teologiche, in particolare la rielaborazione dell’eredità controriformistica compiuta dall’intransigentismo cattolico otto-novecentesco.
Questo atteggiamento è emerso sul piano esteriore con la decisione di rimettere in auge abiti (il saturno, il camauro), paramenti liturgici (il pallio, le mitrie e i piviali tradizionali), oggetti (la ferula e il tronetto di Pio IX) da tempo abbandonati nelle apparizioni pubbliche dei pontefici del post-concilio.
Ma ha trovato la sua più eclatante espressione con il motu proprio Summorum pontificum che nel luglio 2007 reintroduceva la liturgia pre-conciliare, proclamando la singolare tesi che nella Chiesa cattolica di rito latino convivevano una modalità ordinaria della preghiera (quella introdotta dalla riforma liturgica di Paolo VI) e una modalità straordinaria (quella sancita nel 1570 dal cosiddetto messale di san Pio V).
Al di là di precipitose correzioni – come la nuova preghiera per gli ebrei inserita nella cerimonia del Venerdì santo del rito straordinario per evitarne l’incongruenza con i documenti conciliari, senza toccare le altre parti della liturgia che pure li contraddicevano – il provvedimento aveva ragione nel progetto di riassorbire lo scisma del tradizionalismo anti-conciliare.
Nel gennaio 2009 infatti la Congregazione dei vescovi emanava un decreto che revocava la scomunica inflitta da Giovanni Paolo II. I successivi incontri tra le due parti registrarono indubbie convergenze.
Ma si arenarono su una questione: le garanzie canoniche chieste dai tradizionalisti, allo scopo di poter mettere in discussione le interpretazioni delle deliberazioni del Vaticano II date dal magistero. Benedetto XVI non riteneva insomma di poter spingere la volontà di reintrodurre la comunità anti-conciliare nella comunione ecclesiale fino al punto di consentirle di mettere in questione la suprema autorità del papato.
Il potere del papa
L’intangibilità del potere monarchico del pontefice sulla Chiesa aveva costituito lo scoglio su cui si era infranto il disegno di Ratzinger di chiudere lo scisma tradizionalista.
Per quanto avesse definito il raggiungimento di questo obiettivo come un punto centrale del suo programma di governo, è difficile stabilire un collegamento diretto tra questa sconfitta e l’inattesa decisione enunciata nell’allocuzione al concistoro del febbraio 2013, di rinunciare al ministero petrino.
L’atto, che non ha precedenti nella storia della Chiesa dell’età moderna e contemporanea, è stato variamente spiegato.
Per alcuni rientra in una decisione maturata fin dai primi anni del pontificato: lo mostrerebbe la deposizione del pallio sulla tomba di Celestino V, il papa del “gran rifiuto”, durante la visita alla basilica di Collemaggio a L’Aquila compiuta da Ratzinger nell’aprile 2009.
Altri hanno sottolineato la difficoltà di guidare la Chiesa universale davanti alle evidenti divisioni della curia romana in ordine alle misure da adottare per far fronte al moltiplicarsi degli scandali finanziari che coinvolgevano istituzioni vaticane e per prendere provvedimenti adeguati sulle sempre più frequenti rivelazioni circa la tolleranza dei responsabili ecclesiastici, e perfino della Santa sede, davanti alla denuncia di abusi sessuali commessi dal clero, in particolare in ordine ai casi di pedofilia.
Lo stesso Ratzinger ha chiarito che, di fronte ai complessi problemi che pone oggi il governo della Chiesa universale, ha ritenuto di non aver più le forze sufficienti per prendere le misure necessarie ad una sua guida efficiente.
Non c’è ragione di dubitare di questa interpretazione. Ma naturalmente il giudizio storico non può assumere acriticamente la valutazione espressa da un protagonista delle vicende considerate. Si tratta infatti di capire bene in cosa consiste l’inadeguatezza personale che il pontefice ha indicato come ragione delle sue dimissioni.
Il rapporto con la modernità
Occorre a questo proposito ritornare alla questione centrale con cui, a partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa si è dovuta misurare: come trasmettere il messaggio evangelico ad un uomo moderno che sempre più si allontana dalla Chiesa?
La linea pastorale a lungo praticata – proporre una società cristianamente ordinata come via per risolvere i problemi che la modernità poneva e non scioglieva - non appariva più in grado di recuperare i “lontani”. Occorreva un aggiornamento. A questo proposito l’assise ecumenica ha fornito una risposta che, molto sommariamente, possiamo ritenere abbia oscillato tra due poli.
Da un lato ha prospettato una linea di apertura al mondo moderno caratterizzata dal criterio di una rilettura del Vangelo alla luce dei segni dei tempi.
Secondo quest’ottica la Chiesa restituisce efficacia alla sua azione pastorale nella misura in cui impara dalla storia quali sono gli elementi del messaggio evangelico capaci di intercettare le istanze del presente e i bisogni profondi dell’uomo di oggi.
Dall’altro lato ha presentato una prospettiva di aggiornamento della dottrina cattolica basata sull’inquadramento al suo interno di alcuni principi e valori della modernità.
In particolare ai fedeli si assegna il compito di costruire un retto ordine della vita collettiva basato sulla conformazione del consorzio civile ad una legge naturale valida per tutti, sempre e dovunque - di cui la Chiesa è l’unica autentica interprete e depositaria - all’interno della quale vengono ora fatti rientrare valori moderni come i diritti umani, la democrazia, la libertà religiosa.
I papi del post-concilio, non senza articolazioni e differenziazioni, hanno scelto questa seconda via.
La cultura cattolica preconciliare riteneva di poter rispondere all’allontanamento dell’uomo moderno dalla Chiesa con il progetto di ritorno ad un regime di cristianità, che avrebbe assicurato una convivenza sociale prospera e felice in contrapposizione alle inadeguate proposte (liberali o comuniste) che gli uomini avevano elaborato nel loro cammino storico.
Senza tradire il Vaticano II – ma optando per una linea tra gli orientamenti presenti nei suoi documenti – i pontefici che hanno cercato di tradurre le deliberazioni dell’assemblea ecumenica in una concreta linea di governo hanno ritenuto di proporre ai contemporanei un’ammodernata neo-cristianità che faceva perno sull’universale legge naturale garantita dalla Chiesa. Benedetto XVI ne è stato l’interprete più conseguente.
Ne era probabilmente all’origine una visione culturale introiettata nel corso di un percorso formativo avvenuto prima della svolta giovannea e conciliare.
Il confronto con la storia
In effetti, in armonia con le tendenze di quell’epoca, il sapere trasmesso nelle istituzioni educative della Chiesa evitava ogni serio confronto con la storia, ed in particolare con la storia del cristianesimo, nel timore di cadere nell’eresia modernista.
Il pensiero teologico di Ratzinger, per quanto raffinato, era del tutto alieno dal confronto con l’effettivo divenire dell’uomo e della Chiesa nel tempo.
Comunque sia, il papa rispondeva alla crisi determinata dall’allontanamento dei contemporanei dal cattolicesimo con una linea che riprendeva l’ammodernamento dottrinale: la restituzione alla Chiesa del compito di fissare, nei pubblici ordinamenti, quei fondamentali diritti che, basati sull’universale legge naturale, salvaguardavano le fondamenta stesse della civiltà umana, le avrebbe assicurato un’efficace presenza apostolica nella società contemporanea.
In particolare l’Europa, riconoscendo formalmente le radici cristiane del suo progetto politico-sociale, sarebbe uscita dalla sua decadenza, ritornando a svolgere un rilevante ruolo storico e politico nel rapporto con altre civiltà e religioni, in particolare quella islamica, che avanzavano, talora anche aggressivamente, sulla scena di un pianeta globalizzato. Per quanto l’incidente sia stato ricucito sul piano diplomatico, l’attribuzione all’islam di una strutturale tendenza alla violenza bellica nel discorso tenuto dal pontefice nel settembre 2006 a Ratisbona rientra in questo quadro.
Questa prospettiva ha ben presto rivelato tutta la sua fragilità. Non solo perché si è scontrata con l’irriducibile tendenza dell’uomo moderno all’emancipazione dalla tutela ecclesiastica nella strutturazione della comunità politica. Soprattutto perché è apparsa sfasata rispetto al profilarsi della post-modernità.
Per quanto sia arduo darne una definizione condivisa, la possiamo considerare caratterizzata dalla rivendicazione della facoltà per ogni individuo di autodeterminare le forme dell’esistenza non solo in relazione agli assetti politici, sociali e culturali della vita collettiva, ma anche in rapporto alle più profonde strutture antropologiche del soggetto (il corpo, la nascita e la morte, l’identità sessuale, ecc.).
In questa situazione l’ammodernata neo-cristianità proposta dal papa appariva del tutto obsoleta: il richiamo alla legge naturale, lungi dal restituire capacità apostolica alla Chiesa, finiva provocare un ulteriore allontanamento degli uomini da essa.
La crisi del paradigma di aggiornamento adottato da Benedetto XVI è apparsa inevitabile. Le dimissioni sono state il riconoscimento della sua inadeguatezza. Non a caso la linea del successore fa perno sul recupero di quella prospettiva di rinnovamento ecclesiale, incentrato sull’accettazione dei segni dei tempi emergenti dalla storia, che il papato post-conciliare aveva abbandonato.
Sotto questo profilo la rinuncia al governo della Chiesa universale appare un atto di straordinaria lucidità e responsabilità. Si può discutere se la concreta gestione dell’inedita funzione di “papa emerito” che Ratzinger si è poi riservato sia stata coerente con questa decisione.
Gli interventi da lui compiuti in questa veste continuano a rivelare quella sordità alla storia che è elemento costitutivo della sua personalità intellettuale: la semplicistica attribuzione della pedofilia del clero alla rivoluzione sessuale del Sessantotto ne è una delle più evidenti testimonianze.
Ma queste esternazioni non hanno certo impedito che al modello ecclesiale della “cittadella assediata dal mondo moderno” si sostituisse ormai quello “dell’ospedale da campo” all’interno della storia degli uomini.
Naturalmente riconoscere l’autonomia dell’uomo d’oggi, offrendo la medicina della misericordia alle ferite che incontra nel suo cammino storico, non garantisce il superamento della crisi cattolica. Ma le dimissioni di Benedetto XVI hanno rivelato che la strada dell’ammodernamento percorso fino a quel momento dal papato post-conciliare era un vicolo senza uscita.
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