- Appoggiarsi ai governi non-politici, sostenerne l’azione fino ad identificarsi con l’agenda del capo di quel governo significa non impegnarsi in nessuna attività di rinnovamento e di elaborazione culturale.
- I segretari passano. Quelli che non passano sono i capi corrente, scusate, i coordinatori delle “sensibilità” all’interno di un partito plurale, cioè caratterizzato da oligarchie neanche troppo mutevoli. La disattenzione alla cultura politica rimane diffusa e alta.
- Sì, questo Partito Democratico è irriformabile. Non sarà riformato da tutti coloro che ne hanno tratto prestigio, cariche e sostentamento per almeno un paio di decenni.
Revisionare. Ricostruire. Rifondare. Rigettare. Rifare da capo. Ex novo. Si moltiplicano i verbi e hanno già fatto la loro comparsa coloro che quanto più sono platealmente candidati alla segreteria del Partito Democratico tanto più dichiarano che non è il momento di fare nomi. E allora chi scrive non farà loro nessuna pubblicità. Fra l’altro sono nomi che non mi piacciono e non mi convincono.
L’origine del Pd
Per capirne di più bisogna risalire alla fase in cui il Pd nacque e come nacque. Quel 21 aprile 2007 c’ero anch’io a Campo di Marte, Firenze, al congresso di scioglimento dei Democratici di sinistra. Nella mia qualità di iscritto di base (unico partito di cui ho avuto la tessera in seguito all’invito del segretario regionale dell’Emilia-Romagna Antonio La Forgia, che mi piace ricordare qui), avevo persino portato in giro e promosso la Mozione Tre: “Un Partito democratico? Non subito, non così”.
Con Gavino Angius e Mauro Zani volevamo che si cominciasse a discutere, collaborare, mischiarsi a livello locale attraendo anche altre energie, altre persone interessate a quanto di nuovo sapessimo e potessero fare, altri saperi e esperienze. Venni, lo metto sul personale, sonoramente sconfitto e più o meno elegantemente sbattuto fuori.
Nella celebrazione dell’evento fra le lacrime e i sogni della grande maggioranza di coloro che già dirigenti erano e che a lungo lo sarebbero rimasti, le mie orecchie ascoltarono inadeguatezze, manipolazioni, errori.
Era ora che il Partito Democratico diventasse il luogo di incontro delle migliori culture riformiste del paese: cattolicesimo democratico, gramscismo, ambientalismo, etc etc.
Non trovò posto il socialismo e meno che mai i socialisti, non voluti né dai cattolici né dagli ex-comunisti che avevano tenuto alte le loro critiche alle socialdemocrazie del nord Europa: inadeguate, incapaci di cambiare il capitalismo, logore, superate.
Sì, c’era proprio di che piangere di fronte alla fusione fredda, senza entusiasmo, di due gruppi dirigenti.
Come fondere le culture politiche?
Nessun tentativo ad opera di nessuno di suggerire come le culture politiche fondanti vetuste e esauste potessero dare vita ad un nuova cultura politica.
Il Manifesto dei Valori, per me un documento della massima importanza, iniziava “Noi, I Democratici, amiamo l’Italia”, uno scimmiottamento deprimente dell’incipit della berlusconiana discesa in campo: “L’Italia è il paese che amo”.
Tutte le volte che ci penso riscrivo la prima fase in chiave riformista: “Noi, i Democratici vogliamo migliorare l’Italia.
Certamente non avrebbero potuto essere i due elementi che i “novisti” introdussero nel partito: “contendibilità” e “primarie” a costruire un partito nuovo, dinamico, progressista.
Se davvero democratico nel suo funzionamento, le cariche importanti di quel partito sarebbero state inevitabilmente e giustamente contendibili.
Quanto alle primarie, che, incidentalmente non sono mai le modalità con le quali si elegge il segretario del partito, ma sono strumenti utili per selezionare le candidature alle cariche elettive al tempo stesso mobilitando anche i simpatizzanti, furono subito piegate da Walter Veltroni a veicolo per la sua cavalcata estiva dal Lingotto alla segreteria del partito.
Ponendo l’accento quasi esclusivamente sulle politiche da fare, e nulla dicendo su quale partito volesse costruire, Veltroni portò più di una mina per fare saltare in aria il già periclitante governo Prodi.
Poi annunciò che il Pd era un partito “a vocazione maggioritaria”, da un lato, senza stupire coloro che sanno che i partiti cercano di ottenere il maggior numero possibile di voti, ma, dall’altro, preoccupando molto coloro che sanno che nelle democrazie parlamentari i governi sono di coalizione.
In seguito, soltanto due segretari del Pd scelsero di trovare parole d’ordine incisive: Pierluigi Bersani e Matteo Renzi.
Il primo annunciò di “voler dare un senso a questa storia”. Immagino il riferimento fosse alla storia del Partito comunista, con l’accento sulla variante riformista di governo di stampo emiliano.
Nessun tentativo di elaborazione e/o revisione di una nuova cultura politica.
Non da Matteo Renzi è plausibile attendersi una visione politica ispirata ad una qualsiasi cultura.
Infatti, la parola d’ordine “rottamazione” fa parte della cassetta, non delle idee, ma degli attrezzi populisti.
Funzionò almeno in parte. Il Renzi governante vi aggiunse un’altra parola populista: “disintermediazione”.
Nessuna associazione, nessun gruppo d’interesse, nessuna categoria professionale s’interponga fra il capo del governo e il popolo.
Non ricordo critiche e repulse interne a queste parole d’ordine e nemmeno elaborazioni alternative.
In verità non mi pare che dai Democratici siano stati fatti sforzi di comprensione delle sfide da affrontare e dei problemi da risolvere.
Appoggiarsi ai governi non-politici, sostenerne l’azione fino ad identificarsi con l’agenda del capo di quel governo significa non impegnarsi in nessuna attività di rinnovamento e di elaborazione culturale.
I segretari passano. Quelli che non passano sono i capi corrente, scusate, i coordinatori delle “sensibilità” all’interno di un partito plurale, cioè caratterizzato da oligarchie neanche troppo mutevoli. La disattenzione alla cultura politica rimane diffusa e alta.
Il partito irriformabile
Sì, questo Partito democratico è irriformabile. Non sarà riformato da tutti coloro che ne hanno tratto prestigio, cariche e sostentamento per almeno un paio di decenni.
Non sarà riformato semplicemente sostituendo i “vecchi” con i giovani, riducendo il numero degli uomini per ampliare gli spazi politici a favore delle donne che, spesso, sarebbero quelle che si sono accodate agli uomini potenti.
I riformatori potrebbero volere guardare a due casi interessanti.
Primo caso: come François Mitterrand in Francia riuscì a incoraggiare e attrarre tutte, o quasi, le associazioni e club variamente capaci di elaborazioni riformiste (sì, lo so che, da un lato, il semipresidenzialismo, dall’altro, la legge elettorale maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali imponevano di aggregarsi per non scomparire) per dare vita al Parti socialiste.
Secondo caso: l’Ulivo, il grande incompiuto. Fu la mobilitazione di un ampio schieramento di associazioni che intravedevano lo spazio per fare politica, non come professione, ma come vocazione temporanea, che sospinse al successo elettorale.
Poi, però, neppure gli ulivisti vollero, si dedicarono, seppero impegnarsi nella attività indispensabile per cambiare questo paese: elaborare una cultura politica all’insegna di una società giusta, europea e europeista, che riduce le eguaglianze e amplia le opportunità. Domani è un altro giorno.
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