- Una domanda ricorrente è quella se, nei giorni che precedono la marcia su Roma, Mussolini poteva essere fermato.
- La risposta è affermativa.
- Sul piano militare e dell’ordine pubblico, le truppe poste a difesa di Roma avrebbero tranquillamente potuto resistere a un attacco degli squadristi, mentre più complessa sarebbe stata una difesa di fronte ad attacchi multipli nelle città del centro-nord, dove tra gli ufficiali e tra le forze dell’ordine si registrava più di una simpatia per l’ultima versione del fascismo come «partito dell’ordine».
I temi di questo articolo sono al centro del quinto capitolo del volume dell’autore Il collasso di una democrazia. La presa del potere di Mussolini 1919-1922, Bollati Boringhieri, 2022. (Per gentile concessione dell’editore)
Nell’ottobre 1922 la democrazia italiana collassò. Benito Mussolini e i fascisti conquistarono il potere con la marcia su Roma senza trovare grandi ostacoli perché l’intera architettura dello stato liberale cedette fragorosamente, aprendo le porte agli autori di un autentico colpo di stato.
Tre anni esatti dividono il trionfo della sinistra nelle elezioni politiche (16 novembre 1919) dal «discorso del bivacco» (16 novembre 1921).
Nessuno, neppure lo stesso Mussolini, dopo il disastroso risultato elettorale dei fascisti nel 1919, avrebbe pronosticato che, a soli tre anni di distanza, sarebbe stato nominato presidente del Consiglio e avrebbe ottenuto la fiducia della Camera, sostenuto da un largo schieramento di partiti e personalità.
Come è stato possibile che ciò sia accaduto e anche così rapidamente? E, soprattutto, sarebbe stato possibile bloccare l’ascesa al potere del fascismo?
Le origini del collasso
Più che di una semplice crisi dello Stato liberale, incapace di governare la società e l’economia uscite dalla Grande guerra, appare dunque più corretto parlare di un “collasso strutturale” del sistema politico e istituzionale.
Il carattere violento e sovversivo della “risacca nera” resta uno dei tratti caratterizzanti di quegli anni e della repentina ascesa al potere di Mussolini, ma sarebbe consolatorio e fallace indicare come unica motivazione della vittoria del fascismo la violenza dello squadrismo.
Non può essere messo in discussione che la “guerra civile” unilateralmente scatenata e condotta dai fascisti contribuì in maniera fondamentale a indebolire l’azione dei partiti di massa e del sindacato, fiaccando giorno dopo giorno l’umana capacità di resistenza; ma alle origini del “collasso” vi fu anche dell’altro.
Tra gli avversari del fascismo risulta infatti una diffusa e manifesta sottovalutazione del fascismo che agevolò, e non poco, il raggiungimento degli obiettivi di Mussolini e la fine violenta della democrazia liberale.
Una domanda ricorrente è quella se, nei giorni che precedono la marcia su Roma, Mussolini poteva essere fermato.
La risposta è affermativa.
Sul piano militare e dell’ordine pubblico, le truppe poste a difesa di Roma avrebbero tranquillamente potuto resistere a un attacco degli squadristi, mentre più complessa sarebbe stata una difesa di fronte ad attacchi multipli nelle città del centro-nord, dove tra gli ufficiali e tra le forze dell’ordine si registrava più di una simpatia per l’ultima versione del fascismo come «partito dell’ordine».
Il rischio di una guerra civile, seppur limitato, esisteva, e stando al racconto di chi era, in quei giorni, vicino a Vittorio Emanuele III, questa paura fu all’origine del mancato avvallo reale alla dichiarazione di stato di assedio che aprì le porte dei palazzi del potere romano a Mussolini.
Un’autodifesa assai debole e smentita dai fatti.
Fermare Mussolini
Non è, infatti, pensabile che il re, nelle settimane precedenti, non avesse ricevuto informazioni riservate sulle reali intenzioni di Mussolini. Se avesse voluto il sovrano avrebbe potuto far affluire nella capitale le truppe necessarie alla sua difesa. Ma non lo fece.
La mancata firma dello stato d’assedio rimane quindi una decisione improvvida, su cui pesarono anche i timori che il crollo del sistema politico potesse trascinare con sé anche la stessa monarchia, o comunque il ramo regnante dei Savoia.
Come Giolitti, anche Vittorio Emanuele III pensò di potersi servire di Mussolini per porre fine alla stagione del sovversivismo rosso e poi, in seguito, parlamentizzare il fascismo.
Sul piano più politico, invece, nell’ottobre ‘22, dopo la nascita del Partito socialista unitario, vi sarebbero stati i numeri alla Camera per un Governo fondato sull’alleanza tra popolari, liberali e socialisti unitari.
Sulla carta questa formula poteva contare sul sostegno di 107 popolari, 167 democratici e una settantina di socialisti unitari per un totale di 334 deputati su 535.
All’opposizione sarebbe rimasta la destra con 35 fascisti, 10 nazionalisti e 13 conservatori e l’estrema sinistra del Psi massimalista (una cinquantina) e dei comunisti (14).
La coalizione mancata
Non a caso, agli inizi di ottobre del ‘22 Mussolini vedeva come fumo negli occhi la possibilità che si costituisse un governo anti-fascista. Una circostanza che potrebbe aver accelerato l’organizzazione della stessa marcia su Roma, accompagnata da un tira e molla di trattative, più o meno segrete, con Giolitti e Salandra, funzionale unicamente a prendere tempo e mettere il re di fronte al fatto compiuto.
Una collaborazione tra liberali, popolari e socialisti unitari avrebbe potuto salvare o comunque rimandare la presa del potere del fascismo. L’accordo non si materializzò, nonostante le trame giolittiane, per l’intransigenza pregiudiziale dei popolari a intese con i socialisti e la fuoriuscita, fuori tempo massimo, dei riformisti turatiani dal Partito socialista.
La storia non si fa con i se, ma a rileggere l’andamento dei tre congressi del Psi (Livorno, gennaio ‘21, Milano, ottobre ‘21 e Roma, ottobre ‘22) viene spontaneo domandarsi come sarebbe cambiato il corso degli eventi se la corrente riformista fosse stata espulsa per assecondare i voleri della III Internazionale comunista a Livorno e non, quasi due anni dopo, a poche settimane dal tracollo.
Un accordo Giolitti-Sturzo-Turati indubbiamente avrebbe consentito una migliore difesa della democrazia parlamentare, andata, invece, progressivamente indebolendosi proprio per l’incapacità di dar vita a maggioranze autosufficienti.
L’indisponibilità alla collaborazione con altre forze parlamentari che contraddistinse la tattica della maggioranza massimalista del Psi (e alla fine anche dei riformisti turatiani), si specchiò in un’analoga impostazione dell’altro grande partito di massa, il Partito popolare, a sua volta sostenitore, in materia di alleanze elettorali, di un’assoluta «intransigenza» sia verso la sinistra sia verso i liberali.
Rispetto alla situazione venutasi a creare dopo la marcia su Roma, i popolari tennero, invece, un atteggiamento aperturista con un formalismo, ai limiti dell’ipocrisia istituzionale e politica, anche se l’autonomia del gruppo era sancita dall’articolo 10 dello statuto del Partito.
Il direttorio del gruppo parlamentare, presieduto da De Gasperi, infatti, autorizzò «la partecipazione dei designati al nuovo Gabinetto» e la direzione del partito (con la contrarietà di don Sturzo all’alleanza con i fascisti) si limitò a prendere atto delle decisioni del gruppo parlamentare in merito alla soluzione della crisi ministeriale. De Gasperi, in un articolo apparso su «Il nuovo Trentino» del 6 novembre 1922, difese la scelta di sostenere il governo Mussolini, auspicando che riuscisse, «perché il suo insuccesso cagionerebbe nel paese uno schianto di molte speranze, un collasso di molte energie».
Tra i deputati del Partito popolare finì così per prevalere la fallace convinzione che un governo guidato da Mussolini, in fondo, rappresentasse il male minore e che si dovesse lavorare per il completamento dell’istituzionalizzazione del fascismo, oltre al timore che in caso di passaggio all’opposizione si sarebbe corso il rischio di andare a elezioni anticipate con il fascismo sospinto dall’ «eccitazione dell’atmosfera insurrezionale».
Anche l’elezione, nel febbraio del ‘22, di Pio XI, aveva agevolato la penetrazione del fascismo tra i cattolici. Il nuovo Pontefice, infatti, era «ostile alla democrazia», di cui faticava a comprendere la stessa nozione e, conseguentemente non nutriva particolare fiducia nei partiti politici, compreso il Partito popolare.
Nonostante la sua avversione verso i nazionalismi, il pontefice vide in Mussolini e nel fascismo un baluardo nei confronti del pericolo della diffusione del comunismo ateo e del laicismo, sebbene per Pio XI «la religione cattolica non può diventare mai e per nessuna ragione “strumento” dell’azione politica».
Nelle settimane che precedettero la marcia su Roma, Mussolini usò argomenti assai graditi alla gerarchia cattolica (difesa della famiglia, insegnamento della religioni della scuola) in contrapposizione alla visione anti clericale sia dei socialisti sia dei costituzionali.
Dal canto loro i liberali, invece, rimasero sempre timidi verso intese con popolari e socialisti, due forze che pur partendo da presupposti ideologici e prospettive differenti esprimevano una critica radicale all’esperienza post risorgimentale.
Anche la competizione tra i leader della composita area liberal-costituzionale non agevolò una forte azione di contrasto al pericolo di una deriva autoritaria, preferendo una sorta di appeasement verso Mussolini non troppo differente da quella che negli anni trenta avrebbe caratterizzato l’azione diplomatica delle democrazie europee nei confronti di Hitler e della sua politica espansionistica.
A parziale giustificazione dei liberali (e non solo) vi è da sottolineare la difficoltà, per i contemporanei, a immaginare una «costruzione istituzionale autoritaria, e tendenzialmente totalitaria», come quella che in pochi anni avrebbe, invece, iniziato a prendere forma.
Le colpe della sinistra
In definitiva, anche i liberali sottovalutarono i rischi e la portata destrutturante del fenomeno fascista, mettendo in luce debolezze e scarsa qualità della classe dirigente dell’epoca.
Un comportamento simile sarebbe stato tenuto della classe dirigente conservatrice tedesca nei confronti di Hitler che, secondo i più, una volta nominato cancelliere del Reich si sarebbe «spento contro la falange di Hindenburg, dell’esercito e della Costituzione».
Anche nella Repubblica di Weimar, nonostante il consenso elettorale dei nazisti, l’establishment conservatore avrebbero potuto fermare l’avanzata di Hitler. Scelse, invece, come in Italia «di usarlo, anche se l’alleanza nazisti-conservatori è sempre stata burrascosa».
Un altro tema presente nella memoria collettiva, in particolare della sinistra, è quello che la rottura di Livorno, o meglio le due scissioni nel biennio 1921-22, abbiamo contribuito in maniera determinante ad aprire la strada all’ascesa al potere del fascismo. «Livorno: che disastro» fu il commento a caldo di un deluso Antonio Gramsci, appena tornato a Torino, nel ricordo di Camilla Ravera.
Quella italiana, effettivamente, fu una scissione minoritaria a differenza di quella francese (congresso di Tours) e tedesca (congresso di Halle), dove i partiti comunisti nacquero da maggioranze congressuali conquistate in seno ai partiti socialisti.
Più che gli scontri ideologici interni al Psi, fu, dunque, il «biennio rosso», o meglio, la complessiva gestione deficitaria dell’ «onda rossa» uscita dalle urne delle elezioni del ‘19, a far maturare le condizioni della rottura tra socialisti e comunisti e soprattutto a contribuire ad alimentare paure e ansie su cui si innestò la «controrivoluzione preventiva» messa in atto dal fascismo e ampiamente descritta in precedenza.
Il «faro» della rivoluzione russa finì per «abbagliare» il cammino dei partiti della sinistra italiana nel primo dopoguerra. Tutti, nessuno escluso, subirono la fascinazione di quell’evento.
Le colpe maggiori della disfatta della sinistra di fronte al fascismo sono state attribuite da molti sia a Serrati e alla corrente massimalista, maggioritaria nei congressi socialisti sia ai sindacalisti riformisti alla guida della Confederazione generale del lavoro.
Massimalisti e riformisti sono stati indicati, per decenni, come i principali responsabili, a diverso titolo, del boicottaggio della rivoluzione italiana durante l’occupazione delle fabbriche, considerato il più alto momento dello scontro di classe nella storia d’Italia.
Oggi siamo in grado di poter affermare che l’occupazione delle fabbriche del 1920 ha rappresentato un autentico «spartiacque» tra il punto più alto della parabola ascendente dell’ «onda rossa» e l’inizio della «risacca nera» che avrebbe travolto le istituzioni dell’Italia liberale.
Quello che a posteriori è stato a lungo interpretato e propagandato come l’apice dello sviluppo rivoluzionario in Italia, era, in realtà, per dirla con le parole di Gramsci nel 1924, l’inizio del «periodo di decadenza del movimento operaio».
Una valutazione depurata dalle scorie ideologiche e della sterile individuazione del capro espiatorio, - i massimalisti - consente, dunque, di riconoscere con nettezza proprio nell’abbagliamento prodotto dalla rivoluzione bolscevica uno dei fattori che impedirono alla sinistra italiana, con poche eccezioni, di vedere in tutta la sua dimensione sistemica il pericolo rappresentato dall’avanzata violenta del fascismo, a partire dagli ultimi mesi del 1920.
La dimensione internazionale della lotta tra comunismo e socialdemocrazia prevalse sulla comprensione della specificità e della criticità della situazione italiana.
A sinistra si rivelò anche prevalente la fallace convinzione di essere entrati in un «periodo storico rivoluzionario», di cui la rivoluzione d’Ottobre rappresentava solo una tappa.
Appare quindi ingeneroso indicare come principale responsabile della sconfitta della sinistra il solo Serrati, la cui memoria è stata oscurata e «la sua opera misconosciuta e deformata attraverso interpretazioni fin troppo facili e persino risibili».
E’ innegabile che Serrati e molti altri dirigenti massimalisti rimasero ingabbiati a lungo dentro un’interpretazione determinista del marxismo, per cui la crisi di sistema prodotta dalla Grande guerra avrebbe portato inesorabilmente alla superamento del capitalismo e all’avvento della società senza classi. In questa visione, aliena dalla ricerca di alleanze nel sistema politico democratico, il leader massimalista, però, era in buona compagnia a sinistra.
Deve, però, essere riconosciuto a Turati il merito di aver indicato alla sinistra con il suo discorso del 26 giugno 1920, diffuso poi in opuscolo con il titolo Rifare l’Italia, un’alternativa all’attesa messianica della rivoluzione fondata sulle riforme, senza, però, negare alle masse la prospettiva millenaristica del superamento del sistema capitalistico.
Fuori tempo massimo, i turatiani aprirono a una collaborazione governativa per contrastare il fascismo, ma, per loro stessa ammissione, abbandonarono troppo tardi il Partito socialista, a sua volta entrato nell’orbita del comunismo bolscevico.
Gli equidistanti
Nelle convulse giornate della marcia su Roma e della costituzione del governo Mussolini, si manifestò, però, più di un cedimento da parte dei vertici sindacali riformisti, con Gino Baldesi pronto a diventare ministro e stoppato in extremis dai suoi compagni di corrente e con il diniego alla richiesta comunista di indire uno sciopero generale contro la presa del potere da parte del fascismo.
Il 30 ottobre 1922, con una drammatica e sconcertante presa di posizione di equidistanza la Cgdl (Confederazione generale del lavoro) mise in guardia «i lavoratori dalle speculazioni e dalle sobillazioni di partiti o di raggruppamenti politici intenzionati di coinvolgere il proletariato in una contesa dalla quale deve assolutamente rimanere appartato per non compromettere la sua indipendenza».
Per parte loro i comunisti italiani alimentarono nelle masse sempre e solo una prospettiva: «fare come in Russia».
Dopo la scissione di Livorno, sia Bordiga sia gli ordinovisti di Torino fomentarono una spirale settaria bollando tutti gli altri partiti della sinistra come «nemici della classe operaia», proprio mentre il fascismo divenne un attore nazionale, con spazi crescenti per l’alimentazione, con azioni armate, di una «guerra civile strisciante».
In definitiva, fu il mito della rivoluzione russa a condizionare negativamente larga parte della sinistra italiana nella mancata difesa della democrazia rappresentativa.
Allo stesso modo il fallimento della II Internazionale, colpevole del «tradimento» perpetrato nella prima guerra mondiale, privò l’ala gradualista del Partito socialista non solo di un riferimento politico internazionale da contrapporre a Mosca, ma soprattutto di un’alternativa tattica e strategica rispetto al mito volontaristico della rivoluzione russa, che scaldava i cuori delle masse.
Quel che colpisce rileggendo documenti e interventi del dibattito nel Partito socialista, infatti, è lo spazio minimo dedicato alla comprensione del fascismo e del pericolo autoritario.
L’avversione nei confronti della democrazia borghese, era largamente maggioritaria tra le file della sinistra, con la parziale eccezione dei riformisti, e contribuì ad assecondare l’opera fascista di delegittimazione delle istituzioni democratiche, uno dei primi, decisivi, passi verso l’instaurazione di un regime autoritario.
La vittoria di Mussolini e dei fascisti era stata totale e nel giro di pochi anni la sinistra e tutti gli oppositori del regime sarebbero stati, tutti, tristemente messi in condizione di non nuocere.
In definitiva, come ebbe modo di ricordare Carlo Rosselli nella primavera del ‘26 in una riflessione sulla sconfitta della sinistra di fronte al fascismo, non bisogna mai dimenticare che «siamo noi gli autori e del nostro bene e del nostro male».
Le ragioni della sconfitta
«Perché fummo dunque battuti?» - si interrogava nella primavera del 1926 il futuro fondatore di “Giustizia e Libertà”, assassinato con il fratello Nello, in Francia, da sicari fascisti, il 9 giugno 1937 - «[il Partito socialista] si perse da un lato nel rivoluzionarismo verboso e astratto, dall’altro degenerò troppo spesso nel corporativismo e nel gretto riformismo, barattando inconsapevolmente i valori supremi per il classico piatto di lenticchie abilmente preparato da Giolitti».
Gli rispose Mauro Rabano, alias Claudio Treves, in uno degli ultimi numeri della Critica Sociale prima della sua soppressione in conseguenza della legge che vietava la stampa di opposizione al regime: «Non importa ora dire come il partito, battendo le vie della rivoluzione totalitaria, arrivò alla totalitaria reazione. Domandarsi: “perché siamo battuti?” è nulla, se non ci si domanda: “in che siamo battuti?”. Tutto un fronte è caduto - il fronte della civiltà democratica. Ma accagionarne la classe lavoratrice in tale proporzione è furore di autocritica, è passione di penitente, ebbro di dissolvimento».
«Fu errore di intelletto» - proseguì l’esponente riformista - «non di sentimento, credere che lo Stato si difendesse e custodisse in sé l’ospizio delle libertà legali del proletariato insieme a tutte le altre. Ammesso ab initio tale errore, il resto doveva seguire irreparabilmente. Nessuna forza umana può vincere la sedizione che collude col potere stabilito».
Questi temi sono al centro del quinto capitolo del volume dell’autore Il collasso di una democrazia. La presa del potere di Mussolini 1919-1922, Bollati Boringhieri, 2022. (Per gentile concessione dell’editore)
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