- Cè l’idea che se non guadagni abbastanza, se non lavori abbastanza, allora non vali abbastanza. E quindi devi vergognartene.
- Ma così facendo proiettiamo come destino individuale qualcosa che forse non dipende completamente da te, ma anche da altri fattori.
- Ad esempio il contesto da cui vieni, la storia familiare, se hai dovuto cambiare città o emigrare, dalla tassazione e da chi decide come la ricchezza dev’essere ridistribuita.
Mi chiamo Mariachiara Montera, ho quarantadue anni e ho trascorso i primi sei mesi del 2022 a vergognarmi perché non stavo lavorando – e guadagnando – abbastanza.
È sempre stato così: il giorno 1 della mia indipendenza economica è stato lo stesso giorno 1 della mia incertezza esistenziale.
Diventare autonoma dal punto di vista finanziario mi ha portata a familiarizzare con una grande turbolenza emotiva: cʼero io, e la mia capacità di stare in piedi. O almeno credevo.
VERGOGNA
La pratica del lavoro mi ha insegnato a convivere con una zavorra multiforme di sensazioni: orgoglio, soddisfazione, congelamento, biasimo, difesa, adeguamento, ansia. E vergogna, appunto. Pensavo fosse uno stipendio, invece era un impetuoso calesse.
Per compensare e adattarmi a questo turbinio ho di volta in volta adottato svariate soluzioni comportamentali: diventare più efficiente, licenziarmi, chiedere un aumento, mettermi in proprio, lavorare sul mio personal branding, imparare e studiare, leggere e divulgare.
Ogni volta che il lavoro si è fatto pesante, difficile, urticante, ho sempre pensato che la soluzione dovesse venire da me: tirati su le maniche, prendi un respiro, fai una passeggiata. Agire mi è sembrata lʼunica soluzione realistica per modificare il mio stato dʼanimo; intervenire sugli effetti, senza per forza comprenderne i sintomi. Fare, fare, fare, per non sostare. Diventare il mio appiglio.
Alcune volte le cose hanno funzionato, e mi sono presa i meriti. Nel caso opposto, le colpe, e di nuovo: la vergogna.
Un poʼ come una pianta che viene sradicata e innestata in terreni diversi: il lavoro ci spinge a continui adattamenti. Siamo insieme pianta e giardiniere, e la narrazione corrente ci dice che abbiamo tutte le competenze e le potenzialità per recidere, sbocciare, diventare rigogliose, indebolirci, trapiantarci.
E se non fosse cosí? Se cosa accade nel lavoro, e come ci sentiamo, non dipendesse interamente da noi? Cosa accadrebbe se, rispetto al lavoro che facciamo, riuscissimo a vedere nuovi strumenti di decodifica delle nostre sensazioni? Cosa cambierebbe se slegassimo il lavoro dai sentimenti con cui ci identifichiamo?
Insomma: e se fosse il caso di destrutturare quello che sappiamo sul lavoro, oggi, a quarantʼanni, per meritarci altro?
SCARICHIAMOCI DEI PESI
Mesi fa ho fatto un tentativo: quello di non permettere che la vergogna mi sotterrasse. Per farlo, ho letto. Molto. Ho cominciato a indagare quello che ruotava intorno alla vergogna: aveva a che fare col mio vissuto? Potevo incorniciarla come un sentimento generazionale? Dovevo ricondurla alla mia classe sociale? Avrei dovuto smuovere le origini familiari, e culturali?
Quello che leggerete è il mio tentativo intellettuale, ed emotivo, di scaricare il peso. Ho dovuto calare le mie sensazioni in dinamiche molto più grandi di me.
Ho scrocchiato il mio cervello, per comprendere certi concetti. Mi sono alleggerita, e ho voluto scrivere queste parole per tutte le persone che hanno bisogno di questa leggerezza. E di una mappa, per orientarsi nel territorio dove si incontrano soldi, sentimenti e giudizi, con una consapevolezza maggiore.
PARLIAMO DI SOLDI
Cominciamo da qualcosa di privato, e cioè dalla mia storia dei soldi, che è anche una storia di famiglia.
Mentre scrivo ho quarantadue anni ancora per un poʼ, e svolgo un lavoro a metà tra il marketing e la creatività: progetto, penso, organizzo contenuti, a volte per lʼindustria culturale italiana – ed è per questo che mi state leggendo –, altre volte per industrie diverse.
Scrivo podcast, mi occupo di formazione sui temi della scrittura, e sono specializzata in tutto quello che ruota intorno al cibo, con consulenze, proposte, format.
Lavoro in proprio da quasi undici anni, dopo altri dieci trascorsi in azienda e agenzia. Cʼè stato un periodo in cui ho avuto una tredicesima, insomma. La malattia pagata, dei colleghi alla macchinetta del caffè. Quanto era orribile, quel caffè.
Però ecco: dieci anni a farmi le ossa nel marketing e nella comunicazione e a indossare tacchi fisici e mentali per provare ad appartenere a un mondo che immaginavo esuberante e laborioso.
In quel contesto professionale ho incanalato lʼimpazienza di vedere riconosciute le mie ambizioni, rimpolpando ruoli di diverse responsabilità ed enorme carico mentale: immaginavo che se da qualche parte ci fosse stato scritto manager, mi sarei realizzata.
Ho deciso poi di mettermi in proprio: la libera professione è stata una scelta ponderata. Non ci sono finita per caso: volevo liberarmi dai pessimi capi e lavorare secondo ritmi miei.
Ritenevo desiderabile inseguire la fluidità delle competenze anziché quellʼimbuto verticale che ruotava intorno al ruolo di manager. Un imbuto di mansioni che ci mettevano poco a diventare ripetitive, dove lo sforzo e il risultato del mio lavoro erano soggetti a una straniante parzialità.
Volevo riconoscermi i meriti che avevo, abbracciare quellʼambito creativo a cui dedicavo il tempo serale e del weekend.
Mi sono sdoppiata e triplicata per diversi anni, per inseguire quello che amavo e per lavorare meglio.
Questo assunto che se ami quello che fai non hai la sensazione di lavorare davvero: lo avete già sentito, no? Eppure, spiega Sarah Jaffe, non abbiamo mai lavorato così tanto come in questi anni: ci snodiamo per essere disponibili, reperibili, flessibili, infiniti.
Lavoriamo la sera, il sabato, svolgiamo tre lavori per inseguirne uno che sia quello che amiamo, e non molliamo mai. Però, ecco: questa storia del lavoro per amore somiglia tanto a un inganno.
Secondo voi, io lo avevo intuito? Ma figuriamoci.
VITA DI PAESE
Cʼè una storia che precede però tutto questo, tutti gli stipendi, le fatture, i prestiti, gli affanni, i regali, lʼIva e lʼInps: riguarda il luogo in cui sono stata cresciuta, i soldi che ho avuto prima di guadagnarne di miei.
È il terreno dove ha messo le radici la mia emotività finanziaria, ossia il ruolo identitario che ho assegnato al mio conto in banca: la mia famiglia, la mia classe sociale, il mio paese.
Olevano sul Tusciano, in provincia di Salerno. È un paese a cui voglio bene, perché mi ha regalato unʼinfanzia nella natura: da adolescente ho cominciato a litigarci, finché lʼetà adulta e la distanza mi hanno aiutato a farci pace.
Torno nella mia casa dʼinfanzia una volta o due allʼanno, e quando con lʼauto attraverso le strade fino al mio palazzo bianco di tre piani, senza ascensore, mi sembra di vedere un paese sotto la pioggia.
Anche quando non piove: ammuffito, svuotato, fragile, con diverse attività chiuse. Non ho dati per sostenere ipotesi di involuzione economica, ma sarei disposta a scommettere che un paese del Sud di seimila anime e poca attrattività non abbia fatto un salto quantico verso uno sfarzoso sviluppo. Ma qui non parliamo del presente, parliamo di piú di vent’anni fa.
Sono nata in questo paese in provincia di Salerno nel 1980, e ho vissuto qui fino ai diciotto anni: nel 1998 sono andata via, e ho trovato casa altrove.
Olevano sul Tusciano è isolato, a metà tra Battipaglia e Acerno, ai piedi del parco regionale Monti Picentini: si lavora con le colture di ulivo e con la centrale idroelettrica, con i piccoli negozi, i lavoretti.
Cʼè stato un poʼ di turismo, legato alla Grotta di San Michele, il patrono del paese, e con alcune iniziative sporadiche a opera di una vivace pro loco.
Ha tre frazioni e un fiume, e oggi ci abitano i miei genitori, che hanno divorziato qualche anno fa, e mia sorella.
Oggi sul citofono di casa di mia madre si reitera la scelta fatta anni prima: prima i titoli, poi i cognomi. Dottori e professoresse, prima che persone.
Cʼè unʼaltra storia su cui non ho dati: quella degli scossoni economici della mia famiglia di origine. Non mia nonna materna: lei aveva i soldi sotto il materasso. Il mio nonno paterno aveva un asino e della terra, poi ha ricevuto una diagnosi di afasia e la terra è andata alla sorella di mio padre.
A lui è rimasta la vecchia stalla e un poʼ di terra: lʼha ristrutturata e ora che ha divorziato da mia madre è diventata casa sua.
Mia madre insegnava inglese alle scuole medie: prima in province lontane, finché non ha ottenuto il ruolo a Battipaglia, a sette chilometri da Olevano.
Ricordo unʼinfanzia di indiscusso matriarcato, dove nonna, prozie, signora delle pulizie si prendevano cura di me e mia sorella in attesa che mia madre tornasse. Un misto di lavoro di cura, rete familiare estesa, rapporti e distanze di piccolo paese.
Mio padre era un medico di medicina generale, specializzato in psichiatria: esercitava la professione di medico di base del paese, di quello che una volta curi un bambino e la volta successiva, quando vengono nello studio di casa per avere un parere, ti regalano una gallina viva.
Avevamo spesso un animale vivo nel corridoio di ingresso, ma lo sapevi solo quando afferravi la busta che aveva lasciato la paziente che era appena andata via.
TUTTO CAMBIA
Dottore, professoressa, in un piccolo paesino: uno scenario pacifico, direi. Cosí sembrava: abbiamo avuto una prima casa, vicino a una piazza, che poi abbiamo cambiato per una zona piú residenziale. Tutti vanno via dal centro del paese, funziona cosí.
Due buoni stipendi, casa di proprietà, famiglie di origine non ricche, anzi, ma ecco: i miei genitori hanno di sicuro vissuto anni di riscatto dal dopoguerra – sono nati nel 1945 e nel 1948.
Poi però le cose sono cambiate, intorno alla mia tarda infanzia/prima adolescenza. Mio padre lavorava in tre studi: nel giro di pochi anni ne sarebbe rimasto uno solo, al centro di Ariano, la frazione di Olevano dove vivevamo.
A fasi cicliche, sembrava che la nostra famiglia andasse in rovina: dico «sembrava» perché la percezione che avevo io da bimba derivava dallʼatteggiamento ansiogeno di mia madre.
Non avevo gli strumenti per capire quale fosse la realtà dei fatti: avevo solo le sue parole, il silenzio di mio padre, qualche cambiamento nel nostro stile di vita.
Mia madre cominciava i suoi discorsi con delle preoccupazioni generali, per poi fare sempre lo stesso annuncio: suo marito, nostro padre, era in difficoltà. Seguivano periodi di magra, la rinuncia a sfizi, lo stringere la cinghia, e nel corso degli anni lʼabbandono dei suddetti studi. Ma come si dice: non ci è mai mancato nulla, compresa lʼuniversità fuori casa.
Non ho mai davvero capito quali fossero le cause di quegli smottamenti e quanto fossero effettivi: col tempo ho provato a indagare, ma il dialogo e la consapevolezza non fanno parte delle dinamiche familiari, e non ha portato grandi risultati.
Magari mio padre ha avuto sfortuna, forse in alcuni frangenti è stato meno capace. Non saprei dirlo: so però che vivevo una condizione che non era solo personale. La mia famiglia, per capacità di acquisto e collocazione, era a tratti borghese, a tratti della working class: frequentavamo il mercato piú che i negozi, avevo un giubbotto della Think Pink e lʼanno dopo non potevo comprarmi un paio di jeans.
Insieme a questo, sono stata cresciuta nellʼidea che studiare e impegnarmi fossero il passe-partout per migliorare la condizione economica e sociale di partenza, ma il mondo cambiava nel frattempo e persino il mio mondo familiare sembrava smentisse quella promessa.
Venivano meno le potenzialità che i nostri genitori davano per scontate, si affacciava la cultura neoliberista che ci avrebbe fatto desiderare risorse che non avremmo potuto permetterci.
Quindi: come si reagisce a questo intruglio, se lo sommiamo alle ansie economiche percepite e in parte vissute?
Non esiste una risposta unica: ho conosciuto persone e famiglie in condizioni di forti ristrettezze economiche nelle quali la poca disponibilità economica non ha mai generato traumi profondi o la percezione di molte mancanze. Per me, è stato lo spazio in cui ho appreso la vergogna.
Nella lingua cinese ci sono circa 113 termini per comunicare delle emozioni legate alla vergogna, qui mi limiterò a essere più breve: la Treccani la definisce come quel «sentimento più o meno profondo di turbamento e di disagio suscitato dalla coscienza o dal timore della riprovazione e della condanna (morale o sociale) di altri per unʼazione, un comportamento o una situazione, che siano o possano essere oggetto di un giudizio sfavorevole, di disprezzo o di discredito».
Forse è uno dei vocaboli dove, più di altri, lʼincontro tra chi eravamo da piccoli e chi siamo da adulti avviene su un crinale e non si sa bene come proseguire la conversazione.
La vergogna è un campionato sfaccettato: è dove la voce si impicca, è il sentimento che sposa il giudizio, è il terreno dove siamo in ginocchio mentre ci pare che il mondo corra. Influenza il passo con cui attraversiamo stanze e contesti: è un sentimento intimo che si innesta nella società e nel momento storico in cui ci muoviamo.
A tirarne i fili sono la nostra storia personale e quella culturale, e lʼesito è una sensazione di inadeguatezza e di biasimo.
DOVE NASCE LA VERGOGNA
La vergogna per me è nata in famiglia, e si è propagata da adulta. Nel suo Melanconia di classe, Cynthia Cruz ritrae una crescente chiusura in sé stessa, man mano che si confrontava con le aspettative sullʼidentità professionale: piú veniva a contatto con la persona che per status e lavoro ci si aspettava dovesse essere, maggiore era la sua vergogna come persona.
Ed è qui che vorrei ci fermassimo: nel momento in cui svanisce la differenza tra il voler scomparire per qualcosa che ho fatto, o che ha cause esterne, e il desiderio di nascondermi per chi sono, e per quanto guadagno.
Quanto guadagni definisce chi sei, e il tuo valore: ha a che fare con lʼidentità, e anche con la cultura e lʼeconomia. Solo che questo lo capisci dopo.
Per anni, dalla prima difficoltà economica della famiglia di origine agli affanni finanziari della vita da freelance, il ritornello che mi sono ripetuta recitava: se sono autonoma sono meritevole di stima e rispetto e amore. Se ho difficoltà finanziarie allora merito di vergognarmi.
Mi basta qualche settimana, qualche mese di lavoro che non va secondo i miei standard per sentire ansia, perdita di controllo, frustrazione: sotto quella che vorrei fosse una vita normale, sento che sto nascondendo unʼincapacità di fondo. Sale la paura di essere un fallimento, e che le cause di questi affanni dipendano solo da me.
Ma io, esattamente, dove e perché ho cominciato a pensare che il lavoro che svolgo e la persona che sono stiano sullo stesso livello? E ancora: basta essere brava, per avere successo? Cosa rimane del lavoro se lo spogliamo dai sentimenti di identificazione?
Estratto da Non dipende da te, Quanti Einaudi, disponibile su tutti gli store online.
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