L’ex comandante del Ros dei carabinieri è sospettato per strage e associazione eversiva. Secondo i pm antimafia di Firenze poteva fermare le bombe del 1993, ma non lo ha fatto. La difesa dell’ex generale: «Accuse surreali»
Politici e mafiosi, ma anche fascisti bombaroli e amici carabinieri. La procura di Firenze, guidata da Filippo Spiezia (pm Luca Tescaroli, Luca Turco e Lorenzo Gestri), individua in questo groviglio di poteri, eversivi e statali, i soggetti che hanno concepito o favorito, non intervenendo, la stagione stagista che ha sconvolto il nostro paese nel 1993. Uno schema, inquietante e già vagliato dalla magistratura in passato senza esito, che emerge chiaramente dalle cinque pagine notificate a Mario Mori, ex generale dei carabinieri, già a capo del Ros e del Sisde.
Mori è indagato per concorso in strage, mafia, ma anche per associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico. Si tratta di un filone d’inchiesta che prende avvio dal primo segmento che ha riguardato, fino alla morte, Silvio Berlusconi e che ancora coinvolge l’ex senatore azzurro, Marcello Dell’Utri, indagato per concorso in strage. Mori, all’epoca delle bombe numero due del Ros dei carabinieri, è accusato di non aver impedito con denunce o atti investigativi «gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni». In pratica, secondo gli inquirenti, l’allora ufficiale dei carabinieri era a conoscenza della stagione stagista di quel biennio 1993-94 che seguiva le bombe che, nel 1992, avevano ucciso i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le loro scorte a Capaci e via D’Amelio.
L’ex generale sarebbe stato informato «dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa e, successivamente, da Angelo Siino, che lo aveva appreso da Antonino Gioè, da Gaetano Sangiorgi e da Massimo Berruti, durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord», si legge nell’invito a comparire.
Nel 1993 la mafia ha seminato morte e distruzione tra Roma, Firenze e Milano, con cinque stragi e la programmazione di una sesta, l’attentato allo stadio Olimpico della capitale, nel gennaio successivo, sfumato per un errore tecnico nell’innesco, secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. I morti innocenti sono stati dieci, una novantina i feriti, il patrimonio artistico vero obiettivo di Cosa nostra devastato e il paese in ginocchio.
Le bombe e i neri
Nella ricostruzione dei pm c’è una contestazione, l’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine democratico, che presuppone il coinvolgimento di altri indagati. Proprio i pm fiorentini stavano ricostruendo le presenze nere, di esponenti di avanguardia nazionale, nei giorni della strage in particolare del leader, Stefano Delle Chiaie, scomparso nel 2019. In particolare era stato riconsiderata una testimonianza che dava l’estremista, latitante fino al 1987, a Firenze nelle ore precedenti alla strage: una traccia inizialmente abbandonata perché una nota investigativa lo collocava in un albergo a Bolzano.
Si tratta della pista nera che unirebbe le bombe dell’eversione di destra a quelle della mafia dei primi anni Novanta, saldando così la strategia della tensione agli attentati di Cosa nostra. Sospetti, ipotesi, incroci, ma nulla di giudiziariamente accertato. Precedenti investigativi in questa direzione si trovano in particolare nell’inchiesta denominata Sistemi criminali, istruita da Roberto Scarpinato, oggi senatore del M5s, finita con un’archiviazione.
Proprio Bellini, condannato in primo grado per la strage fascista di Bologna e citato nell’invito a comparire di Mori, è una figura che collega i mondi: i suoi legami con quei mafiosi, la sua appartenenza al neofascismo, vicino ad Avanguardia nazionale, le relazioni con i servizi. L’eccidio di Bologna, in questo senso, è esemplificativa di un incrocio di interessi, ordita e realizzata dai Nuclei armati rivoluzionari, con la P2 di Licio Gelli che avrebbe finanziato, secondo i pm di Bologna, l’attentato che ha fatto più morti nella storia del paese.
L’ex generale Mori, dunque, dopo lunghi processi dai quali è sempre uscito assolto, è finito in una nuova bufera giudiziaria. Mori dice di non conoscere Bellini. Tuttavia non è la prima volta che affiora il collegamento: già emerso nel processo d’appello, anno 2014, contro Mori per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, anche in quel caso l’ex generale è stato assolto.
«Assume rilevanza probatoria in questo processo il fatto che invece il generale Mori, pur essendo venuto a conoscenza da fonti qualificate quali Paolo Bellini e Angelo Siino di taluni aspetti di tale complessa strategia della tensione, non solo non abbia svolto alcuna attività investigativa, ma neppure, tenuto conto della sua passata esperienza di uomo dei servizi e delle sue amicizie con esponenti della destra eversiva e della massoneria, si sia attivato per allertare comunque le istituzioni», scrivevano nella memoria i pm Luigi Patronaggio e Scarpinato. Elementi che tornano nell’indagine fiorentina, ancora coperta da segreto.
La difesa
«Sono profondamente disgustato da tali accuse che offendono, prima ancora della mia persona, i magistrati seri con cui ho proficuamente lavorato nel corso della mia carriera nel contrasto al terrorismo e alla mafia, su tutti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Forse non mi si perdona di non aver fatto la loro tragica fine», fa sapere Mori in una nota.
L’ex generale, difeso dall’avvocato Basilio Milio, doveva essere ascoltato domani, 23 maggio, anniversario della strage di Capaci, ma ha chiesto un rinvio, davanti ai magistrati dovrà spiegare le sue ragioni.
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