Il dottore Borsellino chiese per lui [Don Ciccio, ndr.] non l’arresto, ma quanto meno l’obbligo di soggiorno, la libertà vigilata, insomma, qualcosa per fargli capire che aveva il fiato sul collo. Messina Denaro non dovette fare nulla, fece tutto il Tribunale che, nel 1991, scrisse che «le notizie dei rapporti di Messina Denaro con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate, per alcuni versi, incontrollabili»...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.
Noi eravamo la roccia, e per questo ci sentivamo una sorta di élite della criminalità, e Riina per noi era lo stato, come gli disse una volta Giuseppe Ferro. Noi, mandamenti di Mazara e Castelvetrano, Mazara e Trapani. La roccia. Lui, lo stato. E qui c’erano i suoi alleati più fedeli, come Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo, capo provincia che aveva preso il posto di Cola Buccellato.
Don Ciccio, pace all’anima sua, era saggio e astuto. Aveva attraversato tutta la vita senza mai avere problemi; ogni tanto capitava che lo fermavano, lo interrogavano, ma lui, picciotti, sempre tranquillissimo era.
Aveva tre nipoti sbirri, cose da pazzi, uno alla finanza, due che erano poliziotti. E per un omicidio, quello del notaio Craparotta, riuscì a ingannare anche il dottore Falcone. È stato il dottore Borsellino a cominciare a indagare un po’ di più su Don Ciccio, a fargli fare un po’ più di vai e vieni dalle caserme, tanto che lui, che non aveva paura di nessuno, una volta glielo ha detto anche, a quelli che lo interrogavano: il paese è piccolo, e voi fate male, ed è come infilare degli aghi sotto le unghie.
Ma il suo capolavoro è proprio quando il dottore Borsellino chiese per lui non l’arresto, ma quanto meno l’obbligo di soggiorno, la libertà vigilata, insomma, qualcosa per fargli capire che aveva il fiato sul collo.
Messina Denaro non dovette fare nulla, fece tutto il tribunale che, nel 1991, scrisse che «le notizie dei rapporti di Messina Denaro con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate, per alcuni versi, incontrollabili», che «non ci sono prove», e che anzi, la figlia Rosalia aveva sposato un Guttadauro, Filippo, «sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio».
Ci guidava con mano ferma e poche parole, se ci diceva che lo scecco vola, noi rispondevamo: sì, è vero, lo scecco vola. Quello che diceva lui era vangelo. Ma era anche molto malato, povero cristiano, e Matteo era stato cresciuto per questo, per diventare un uomo, per diventare il capo.
E non ci ricordiamo quando accadde, perché per noi era sempre stato a così, ma a un certo punto fu chiaro a tutti che ogni decisione che si prendeva in provincia di Trapani doveva passare per un cenno della testa d’u Zi Ciccio, certo, ma soprattutto per il volere del figlio. Senza nessuna investitura, senza riti, santine, sangue, spilloni, minchiate, tutto in automatico, liscio come l’olio di Nocellara appena spremuto, come fosse già scritto.
Anche perché Mariano Agate, che Riina aveva voluto capo del mandamento di Mazara del Vallo, non rappresentava mica tutta la provincia, e poi era sempre in carcere, e non c’erano altre figure di riferimento. C’era Salvatore Tumbarello, sì, c’era Mastro Ciccio Messina. Ma erano reggenti, facenti funzione, insomma.
E anche lì Matteo ci aveva visto giusto e alla prima occasione era riuscito a piazzare Vincenzo Sinacori, che era amico suo, era giovane, era dei nostri. Ad Alcamo, pure, ci abbiamo messo a Vincenzo Milazzo, che poi purtroppo lo abbiamo dovuto uccidere per quel fattaccio brutto che successe proprio nell’estate nel ’92, che si era messo in testa di fare la guerra a Salvatore Riina, tra una strage e l’altra, e Zi Totò gli disse a Matteo: capisco che è amico vostro, ma dovete eliminarlo, è di ostacolo alla nostra, di guerra.
E Matteo in quel periodo aveva proprio questo compito importante: sparare ai disertori. Organizzammo una riunione a Mazara. E così fu fatto, e con lui la fidanzata Antonella. E furono gli ultimi eliminati di una fila lunghissima, che noi oggi non riusciamo neanche a contarli i morti per mano nostra, la cui unica colpa era di non essere schierati con Riina, di volersi vedere la partita, come dicemmo all’anziano Cola Buccellato prima di eliminarlo.
Perché loro non lo capivano, ma noi eravamo sacerdoti di una nuova fede, e nel nuovo ordine che stavamo costruendo non c’era spazio per tentennamenti, dubbi, finzioni. E così dai Buccellato, Rimi, Minore, si passò a noi, e agli Agate, ai Virga. E ai Messina Denaro.
La guerra di mafia nel trapanese
Gli anni Ottanta, insomma, erano arrivati pure per noi. Eravamo diventati pop, e quei vecchi babbiuna non ci rappresentavano più. C’era una nuova Italia che avanzava, e ci volevamo essere noi, in prima fila. Chissà se i Corleonesi lo capivano; ma comunque a noi, tutto il loro casino, servì a farci strada.
A Cola Buccellato gli abbiamo ammazzato il figlio e il cugino, che erano venuti come ambasciatori. L’ambasciata per la pacificazione, la chiamavano, quando si annunciavano. E noi abbiamo fatto la pacificazione a modo nostro.
Li abbiamo uccisi, così eravamo tutti più tranquilli, no? E ogni tanto – nell’attesa dei carichi di droga che entravano dal Belice, passavano poi le campagne di Alcamo, venivano preparati e puliti e partivano da Castellammare del Golfo –, mentre da Palermo ci arrivavano i complimenti per la silenziosa efficienza e l’organizzazione, scherzando tra di noi, ci facevamo anche dell’ironia: se fosse il caos, dicevamo, che criminalità organizzata sarebbe? Sarebbe roba da spara polli, pisci ri ghiotta.
E poi dicevamo che Riina e Provenzano avrebbero meritato la cittadinanza trapanese, perché per noi erano una cosa sola, e non davamo del voi ai Corleonesi, davamo del noi. E se loro erano diventati così potenti, alla fine, era grazie a questa provincia di Trapani, che i signori magistrati un giorno sono arrivati finalmente a capire cos’era, in tre aggettivi: fidata, sicura e invulnerabile.
Ma l’hanno capito quando era già troppo tardi. Ed eravamo impenetrabili. Nessuno sapeva della villa di Riina a Mazara del Vallo, o della sua casa nelle campagne di Castelvetrano, dove i suoi figli scorrazzavano felici tra pirrere e ulivi, o di tutti i suoi acquisti, perché gli piaceva davvero la nostra zona a Totò, ci diceva sempre: «Picciotti, qui sì che c’è pace».
E noi gli dicevamo di sì, Zi Totò, e se serviva qualcosa chiamasse, anche se lui non aveva bisogno di chiedere, tanto eravamo veloci noi ad anticipare ogni sua esigenza: un’uscita in barca, un po’ di olio fresco di frantoio, una riunione da organizzare. E facevamo a gara perché sapevamo che tra noi c’era qualcuno che spiava e riferiva; come avveniva ad Alcamo, dove c’era Giuseppe Ferro che faceva la spia.
Un giorno, che era il 15 gennaio dell’89, a Partinico, Riina organizzò una riunione con quattro della famiglia di Alcamo. Loro arrivarono. Morirono tutti strangolati. E così si faceva a Castellammare, a Trapani, e il gruppo di fuoco partiva sempre da qui, con Matteo in testa che andava – come quando fu per Mommo ’u Nano, nell’86 a Paceco. [...]
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