Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


È tempo, adesso, di parlare di loro. Sì di loro, perché senza non saremmo riusciti a conseguire i risultati che abbiamo raggiunto. E intendo farlo dopo tanto tempo – il tempo mette le cose al loro posto –, perché passati tutti questi anni credo, anzi sono sicuro, che il mio giudizio sarà meno condizionato, più oggettivo.

Voglio parlare dei collaboratori di giustizia, di coloro che la stampa e l’opinione pubblica chiamano “pentiti”. È veramente grazie a loro che il muro dell’omertà mafiosa è crollato, ed è anche grazie a loro che siamo riusciti a penetrare nei misteri di quella che era l’associazione segreta e criminale più potente del mondo occidentale: Cosa nostra.

Questa storia è così importante che bisogna raccontarla, raccontarla bene e per intero. Fin dal principio.

E se il titolo di questo capitolo allude alla “stagione dei pentiti” vissuta dal pool, va detto che andando indietro nel tempo scopriremmo che magistrati e inquirenti avrebbero potuto vivere “stagioni” analoghe anche prima del 1984, se solo avessero dato credito alle rivelazioni dei primi collaboratori di giustizia.

Non avremmo dovuto attendere quell’anno per squarciare il velo dell’omertà che, da sempre, aveva impedito di scoprire i segreti della mafia.

Mi riferisco, anzitutto, alla vicenda del medico Melchiorre Allegra, nato a Gibellina nel 1881 e morto a Castelvetrano nel 1951.

Con la sua confessione – rilasciata già nel 1937, pensate, quasi un secolo fa – sarebbe stato possibile avere un quadro sufficientemente esauriente di Cosa nostra, nella quale aveva “prestato servizio” e sulla cui organizzazione riempì 26 pagine di verbali. Allegra, per ragioni che ancora oggi non conosciamo, era stato tratto in arresto nel corso di una retata. Iniziò a collaborare descrivendo la struttura di Cosa nostra, come poi avrebbero fatto altri pentiti.

Parlò del rito d’iniziazione e della “commissione” – quella che viene chiamata anche “cupola”, l’organo direttivo e deliberativo, deputato anche a decidere questioni di carattere economico tra “famiglie” –, parlò di mandamenti, famiglie, capi decina.

Rivelò gli stessi termini usati da Tommaso Buscetta quasi cinquanta anni dopo.

Fece moltissimi dei nomi e cognomi di capimafia e di “picciotti” che abbiamo ritrovato nel corso delle nostre successive indagini: Calò, Cancemi, Montalto, Troia, Cuccia e tanti altri “avi” degli odierni “uomini d’onore”.

A conferma che la mafia in Sicilia è quasi sempre una tradizione di famiglia che si eredita, di padre in figlio, di generazione in generazione.

La storia venne alla luce negli anni Sessanta grazie al lavoro d’inchiesta di Mauro De Mauro, il giornalista rapito dalla mafia il 16 settembre 1970 e il cui cadavere non è mai stato ritrovato.

De Mauro scovò i verbali dell’interrogatorio di Melchiorre Allegra negli archivi della Procura della Repubblica di Trapani, e così quelle pagine, inspiegabilmente (per usare un eufemismo) dimenticate per lungo tempo nei cassetti di qualche magistrato, vennero pubblicate nel 1962 dal giornale “l’Ora” di Palermo, un quotidiano che ha rappresentato una fucina di altri ottimi giornalisti.

Eppure vennero a conoscenza della Commissione Antimafia solo un anno più tardi, quando li sottopose all’attenzione dei colleghi il deputato Girolamo Li Causi, allora segretario regionale del Pci. Senza sortire alcun effetto.

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