I punti di distribuzione del cibo delle organizzazioni non profit sono diventati i termometri delle nuove povertà, persone bloccate dalla cassa integrazione a poche ore, persone che sono scivolate sotto la soglia. A Emergency in media chi chiede il cibo ha già oltrepassato la soglia 7 di chi non riesce più a pagare affitto e bollette.
- Le condizioni create dal lockdown hanno creato una nuova povertà che ha investito fasce non protette e che non rientrano nei dati ufficiali.
- Nei punti di distribuzione si trovano lavoratori autonomi, ma anche di chi un’occupazione ce l’ha formalmente, ma in realtà non lavora.
- La rete di solidarietà si è ampliata a dismisura, ma il problema resta grave soprattutto se si tiene conto che le istituzioni spesso non hanno neppure gli strumenti formali per aiutare.
Viviana ha 62 anni e vive al Giambellino, quartiere popolare di Milano. Prima della pandemia lavorava in una società di assicurazioni e guadagnava 1.600 euro al mese. Ora è rimasta bloccata. «Da quando è iniziata la pandemia l’azienda per cui lavoravo mi ha tenuto in telelavoro fino ad aprile, da aprile a luglio mi ha mandato in ferie. E da allora sono in cassa integrazione». Le mancano i soldi per pagare le bollette, le tasse e da qualche tempo anche l’essenziale. Questa è la terza volta che viene per prendere il pacco che Emergency, insieme al lavoro dei volontari delle brigate di solidarietà, distribuisce due volte a settimana alla Casetta verde di via Odazio a Milano, zona Primaticcio.
Vite sospese
«Non sono né disoccupata né occupata veramente», racconta «ho le mani legate perché non posso neppure licenziarmi». Fra gennaio e febbraio infatti potrebbe essere reintegrata, ma non ci sono certezze, il suo datore di lavoro potrebbe farla tornare a lavorare come licenziarla non appena scatta l’annullamento del blocco dei licenziamenti a fine marzo. Paradossalmente guadagnerebbe di più se la licenziassero: l’assegno di disoccupazione è più generoso della cassa integrazione, spiega Viviana, che ha maturato molti anni di contributi e a cui mancherebbe anche poco per andare in pensione. Nel frattempo in busta paga di ottobre ha ricevuto 74 euro, a dicembre invece 174 euro. «Ho provato pure a cercare un altro lavoro, e l’ho trovato, ma volevano solo partite Iva. Come faccio a perdere i miei di diritti di lavoratore dipendente diventando autonomo, in questa situazione? Mi hanno detto che la fattura sarebbe stata elevata, ma di questi tempi non puoi saperlo e ho rifiutato».
Non sappiamo ancora con certezza quali siano stati gli effetti della pandemia e dei conseguenti lockdown sulla povertà generale. Quello che sappiamo invece è riferibile all’ultimo anno disponibile, il 2019. Già prima della Covid in Italia si registravano numeri preoccupanti. L’Istat calcola che l’anno passato le famiglie in povertà assoluta - ovvero quelle che non hanno la capacità di accedere a un paniere di beni e servizi considerato essenziale - erano quasi 1 milione 700 mila e raccoglievano quasi 4 milioni 600 mila individui. Nel 2019 un italiano su quattro (più di 15 milioni, il 25,6 per cento) era a rischio di povertà o esclusione sociale. Un dato questo che già prima della pandemia era molto alto rispetto agli altri grandi paesi europei come Germania (17,4 per cento) e Francia (17,9 per cento).
I dati ufficiali aggiornati non ci sono, ma per farsi un’idea dell’effetto generato sulla povertà in Italia, si può andare a vedere i dati che raccolgono le numerose associazioni di volontariato sul territorio. Stando a quanto dicono, ad esempio, i dati del progetto di Emergency «Nessuno escluso» a marzo tutta una nuova fascia della popolazione è franata sotto la soglia di povertà. A differenza della povertà cronica questa nuova fascia di poveri raccoglie profili molto eterogenei, dice Marco Latrecchina coordinatore del progetto. Ci sono categorie non protette, come partite Iva, lavoratori a giornata, a cottimo, contratti a termine, lavoratori in nero o persone come Viviana rimaste bloccate in una situazione paradossale, per cui non sono disoccupate ma neppure occupate veramente. Quello che hanno in comune è che stanno al di fuori del tradizionale sistema di aiuto preesistente la Covid. «Molto spesso infatti queste persone non hanno neppure i requisiti formali per ricevere le forme di sostegno tradizionali», spiega Latrecchina. Per ricevere il buono spesa, ad esempio, bisogna essere residenti a Milano e portare l’ultimo Isee disponibile, l’indicatore usato per calcolare la situazione economica di un cittadino. «L’ultimo Isee disponibile è quello dell’anno prima e potrebbe non dire niente della tua condizione di adesso in cui hai smesso completamente di lavorare. Ma c’è pure chi l’Isee non vuole neanche presentare, perché occupa uno stabile e non vuole finire sotto il radar del comune».
Oltre la soglia del bisogno assoluto
I dati di Emergency sono utili per capire anche la gravità della situazione. «Attraverso un questionario, in cui chiediamo la situazione abitativa, quella lavorativa e fonti di reddito, siamo in grado di misurare la gravità della situazione di chi si iscrive per ricevere i pacchi». Sulla base delle risposte viene assegnato un punteggio. «Siamo passati da un 5.9 della gravità media di giugno, a 7.5 del mese scorso. Per mettere in scala: quando lo screening supera il 7, che è la soglia di bisogno assoluto, vuol dire che chi richiede il pacco non sta pagando le spese per la casa, quindi l’affitto, le bollette». Inoltre tre quarti delle richieste ricevute finora sono state fatte da persone che non hanno mai chiesto aiuto. E questo perché chi era sulla soglia della povertà prima della pandemia era già agganciato ad un qualche sistema d’aiuto.
Le richieste sono aumentate in concomitanza con i lockdown, ma non abbiamo visto un aumento significativo fino ad aprile. «Questo perché stiamo parlando di persone che un lavoro lo avevano, e quindi sono andate avanti finché hanno potuto», racconta S un progetto attivo su Milano che si occupa di distribuire pacchi alimentari e avviare progetti di co-housing per famiglie in difficoltà. «Ad aprile abbiamo moltiplicato i pacchi, a maggio pure, fino ad arrivare ad un migliaio di famiglie coinvolte a giugno». Da allora il numero non è più sceso racconta Panzarin, «a oggi sosteniamo con i pacchi alimentari all’incirca 1500 famiglie, la maggior parte a Milano». A Emergency invece l’afflusso delle persone ha seguito gli andamenti delle chiusure di negozi e attività produttive: «Questa estate il numero dei richiedenti è sceso, in molti sono riusciti a trovare lavoro e ci hanno chiamato dicendo che non avevano più bisogno di aiuto», dice Latrecchina. Il numero è nuovamente salito in concomitanza con il secondo lockdown ad ottobre e adesso è stabile a 500 richieste mensili.
Dove si firma firmare per mangiare?
La casetta verde, come gli altri 1200 hotspot distribuiti nel comune di Milano vede due volte alla settimana centinaia di persone mettersi in coda per ricevere qualcosa da mangiare. Accanto ai volontari di Emergency che distribuiscono i pacchi, ci sono una decina di volontari attivi nelle brigate di solidarietà della zona, e che si occupano di raccogliere generi alimentari nei mercati e nei supermercati vicini. «Dove non arriva Emergency ci siamo noi», racconta uno dei volontari che si occupa di raccogliere cibo fresco come frutta e verdura. Alla casetta verde infatti ci sono tre code, la prima per chi ha fatto richiesta e ottenuto la possibilità di prendere il pacco distribuito dalla ong, una seconda per fare domanda di accesso, e una terza di chi rimpolpa sacchi e sacchetti con il cibo raccolto dai volontari. Quando la gente è ormai scemata rimane solo una delle tre: quella dei richiedenti. In fila una madre e una figlia. Quando è il loro turno il responsabile si rivolge alla madre per farle il questionario, e sapere in che condizioni vivono, ma lei non parla italiano e a sua volta si rivolge alla figlia che può tradurre. La giovane allora si arma di sorriso e domanda: «Dove dobbiamo firmare per mangiare?».
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