Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Io conosco ogni angolo, ogni pietra di questo luogo, le scalinate segrete che s’infilano fra le case e sbucano sull’alto del monte, i minuscoli cortili, le antiche strade secentesche, le fontane… Questa è la piazza della Matrice, chiusa fra due piccole colline: da una parte la chiesa madre con la grande facciata grigia e dall’altra la basilica di S. Paolo, tutta gremita di archi, colonne, e coronata in cima dalle statue degli apostoli.

Tutt’intorno il fianco della montagna si apre dolcemente come una conchiglia: strade, terrazze, case, tetti, balconi, orti, scalinate, alberi, scendono in declivio fino a questa grande piazza deserta. I ricordi: il silenzio dei brevi pomeriggi d’inverno, le partite a calcio quando i terzini si chiamavano «back» e i mediani erano «haif»…

Ogni pomeriggio veniva un ragazzino triste, di minuscola statura, il quale camminava adagio, adagio, dondolando. Voleva giocare a pallone con noi ma non aveva il coraggio di chiederlo: sedeva sulla scalinata della chiesa e ci guardava con un sorriso tristissimo finché le squadre non erano fatte e mancava sempre qualcuno disposto a fare da portiere.

Allora lo chiamavano e lui subito si girava il berretto con la visiera sulla nuca, sistemava due pietre a sette passi l’una dall’altra e si metteva in posizione, esattamente come stanno i portieri nell’imminenza di un rigore. Stava così tutto il tempo della partita. Lo chiamavano Paolo Padreterno.

Ecco, questo è il corso del paese, la strada più amabile che io conosca. Fiancheggiata da piccoli palazzi dell’Ottocento, essa scende dapprima in lievissimo declivio formando un’ampia curva e poi ricomincia a salire, sempre più ripida in rettifilo, fino quasi alla cima della montagna. Le facciate dei palazzi sono verdi, azzurre o rosse, ma di quei colori antichi che la luce, il vento, la pioggia e il muschio hanno modulato per centinaia di anni e perciò si sono fatti tenui come un’ombra.

Balconi ed architravi sono di pietra bianca scolpita, ma anche le sculture, ormai levigate dal tempo, hanno assunto altre forme più misteriose e sfuggenti. Sui grandi marciapiedi si aprono i negozi, i bar, i circoli. Ogni sera, un’ora dopo il crepuscolo, la strada si anima improvvisamente di migliaia di persone che passeggiano quietamente come in un rito, le ragazze più belle sottobraccio, i tavoli dei bar affollati di studenti.

Quella piccola luce verde laggiù dev’essere la sala del bigliardo. Giocavamo la sera a carambola, parigina e piattello. Talvolta poi andavamo a mangiare salsiccia e ulive in una delle bettole sotto la cupola di S. Michele. Di là comincia il quartiere più affascinante e segreto: interminabili scalinate che salgono, scompaiono, riappaiono sul fianco della collina, tra piccole case antiche, palazzi sgretolati, la vecchia torre dell’orologio in equilibrio sulla cima, i vicoli invisibili. Qui vivono soprattutto i poveri ma non c’è famiglia che non riesca a nascondere la sua povertà con incredibile pudore e gentilezza.

Tutte le finestre hanno le tendine; vasi di fiori sono disposti ovunque, sull’uscio delle case, sui davanzali, persino sulle tegole, e le strade sono magicamente linde poiché ognuno provvede a pulire il tratto antistante la sua abitazione. Se incontrate qualcuno, sia uomo o donna, vi saluterà sempre, gentilmente, per primo. Per queste vecchie strade dei poveri non passa però quasi nessuno. Una volta il paese aveva ventimila abitanti, ed ora ne conta solo dodicimila: ottomila uomini se ne sono andati, i poveri naturalmente, i contadini, i braccianti, i fabbri, i calzolai. Vivono in Venezuela, Australia, Svizzera, Germania.

Partendo hanno lasciato la casa intatta, con i mobili, i letti, gli scaldini di rame, come se dovessero tornare da un giorno all’altro. Soltanto un giro di chiave alla porta poiché questo è anche un paese senza ladri. Una volta ce ne fu uno, faceva il gelataio ambulante e girava vestito di bianco con il carrettino a pedali, un ometto gentile e timido. Una notte rubò nella casa disabitata di un barone e dopo tre giorni andò a costituirsi e a restituire la refurtiva.

Gli dettero tre anni, ma la sua vita finì a quel punto: tornò in libertà ma nessuno gli rivolse più la parola, anche i bambini lo scansarono, può sembrare una favola ma accadde veramente così, e più egli era umile, cortese, servizievole per farsi perdonare, e più avvertiva questo silenzioso isolamento, una specie di meraviglia, di disprezzo per quello che aveva fatto. Finché si ammalò e morì… Dove ora c’è quella tabaccheria sulla piazza c’era il circolo universitario.

Ci tenemmo solo una conferenza sui valori della resistenza ma finì a schiaffi. Convenimmo che era più divertente giocare a baccarà. Una volta facemmo una rivista musicale e, poiché non c’erano ragazze disposte a fare da attrici, venimmo a Catania e scritturammo una ballerina al sindacato dello spettacolo. Era piccola, bionda e nonostante avesse almeno quarant’anni ci sedusse collettivamente. Parlava con una vocina in falsetto, soffriva di languori improvvisi per cui, d’un tratto, si abbandonava con un sospiro fra le braccia di chi le stava più vicino. Era la fame.

Fece all’amore con tutti i soci del circolo universitario, in cambio di poca cosa, purché offerta con gentilezza: un paio di ricotte, una decina di uova, un chilo di salsiccia. Mai denaro. La sera dello spettacolo danzò quasi completamente nuda con due fiorellini di carta appiccicati col leucoplasto sui capezzoli, una rosa di seta appuntata sotto l’ombelico e un ombrellino di seta giapponese. Con le diciottomila lire dell’incasso ci ubriacammo. Questa era anche una delle piazze del veglione. I due veglioni di S. Paolo e S. Sebastiano.

Bisogna dire che ogni cosa si facesse in questo paese doveva essere fatta due volte e spesso l’una contro l’altra, come se ci fossero nel paese due anime: l’una raccolta attorno alla vecchia chiesa di S. Paolo nel cuore della vallata, il quartiere più antico e decaduto dove vivevano soprattutto le famiglie baronali e i contadini e l’altro sulla cima del monte, raccolto attorno alla chiesa di S. Sebastiano, nel quartiere nuovo dove s’era adunata la borghesia degli impiegati, negozianti, professionisti, dov’erano il corso, i bar, il municipio e il teatro. Si combatteva per ogni cosa.

Per esempio il patrono era S. Paolo, nero, calvo, terribile, vestito di nero, la spada balenante che aveva tagliato cento e una teste di cristiani, e lassù proclamarono un altro patrono, S. Sebastiano naturalmente, candido, bellissimo, intellettuale, legato ad un alberello e trafitto da frecce d’argento, signore dei laureati, degli artigiani e degli studenti. Il socialismo. dopo la prima guerra mondiale, nacque lassù nel quartiere più alto, la gente circolava con il garofano rosso all’occhiello, e laggiù contemporaneamente apparvero le prime camicie nere con il manganello.

Ci furono circa cento anni di bastonate che coinvolgevano ogni volta gran parte della popolazione. In fondo fu sempre una cosa secondo natura. Per cento anni infatti questa lotta rappresentò, nel microcosmo di questo paese siciliano, l’eco della evoluzione, e quindi di tutte le contrapposizioni della società italiana: l’antico e il nuovo, i nobili e gli artigiani, i borghesi contro i contadini. finché l’accanimento cominciò ad acquietarsi, i baroni scomparvero, i figli dei contadini divennero medici e avvocati, la violenza si trasformò in ironia, e una sera di luglio del 1943 una tempesta di bombe angloamericane fece egalitaniamente strage sopra e sotto.

Negli anni miserabili e affascinanti del secondo dopoguerra, dalle macerie, dai lutti, dalla fame germinò la gioia pazza di sentirsi ancora vivi; e la polemica si riaccese solo praticamente nella grande, contrastante risata dei veglioni di carnevale. Vecchi veglioni, costruiti con una palizzata di tavole tutt’intorno alle piazze; la tribuna d’onore con le spalle a tramontana, da una parte il palco per l’orchestra e dall’altra una fila di botteghini per le lotterie, imbanditi d’ogni premio, cioccolata, salumi, palle di mortadella, ninnoli, galline e minuscoli maiali appesi per una zampa.

La baldoria durava esattamente un mese, ogni sera dalle sette alle due del mattino. Grandi orchestre di tromboni, clarini e fisarmoniche, mazurka, onesteep, fox, valzer, tango, migliaia di persone che ballavano, mangiavano, giocavano, lottavano con i coriandoli. I più poveri, che non avevano denaro per pagarsi il biglietto d’ingresso, stavano a guardare dietro la palizzata, una fila di volti con lo scialle o la coppola nera. A mezzanotte entravano i gruppi delle maschere, cortei di giovanette vestite da damine del settecento, Napoleone e i suoi generali, Buffalo Bill inseguito dagli indiani.

La gente diceva: «Se non è morto in guerra, una di queste sere spunterà Turi Rizza vestito da Carnevale…!». Turi Rizza era partito per la guerra il giorno prima che questa scoppiasse. Era giovane fascista trombettiere, suonava il bombardino nella fanfara, marciava con le tasche piene di minuscoli topi vivi, e ogni tanto ne prendeva uno e lo infilava nella bocca del trombone accanto. Quella sera entrò nella sala del bigliardo, accolto da un clamore di amici e, dal taschino, estrasse una tenaglia. L’aveva rubata a suo nonno maniscalco, il quale se ne serviva per strappare i denti ai muli.

Disse: «Parto per la guerra. Mi porto questa per togliere i denti d’oro agli inglesi. Questi figli di puttana! Voglio tornare ricco…». Uscì dal bar, con i capelli ricci svolazzanti, i baffetti neri, quella tenaglia. E scomparve, come se dietro quella porta di bar ci fosse stato il baratro. L’ho rivisto ora: un ometto con un colbacco sopra la montagna di capelli grigi, la barba grigia. Della faccia che aveva allora gli restano solo i due piccoli occhi neri e folgoranti.

L’ho incontrato dinnanzi all’uscio della sua bottega dove egli fabbrica tutto quello che è possibile fabbricare: mobili, portasigarette, ninnoli, casse da morto, poltrone, accendisigari. Mi racconta la più disordinata e fantastica storia di emigrante che io abbia ascoltato in questi mesi: «Esatto! Partii con la tenaglia rubata a mio nonno per strappare i denti d’oro agli inglesi. Andai nei paracadutisti, mi portarono in Africa e gli inglesi mi presero subito prigioniero. Scappai e mi aggregarono ad un reggimento tedesco, facevo il paracadutista, il barbiere, il falegname e il trombettiere.

Alla fine gli inglesi mi catturarono di nuovo. Vuoi collaborare? dicono. Giammai, rispondo io. Allora mi portarono in Inghilterra al campo 40, presso Oxford, dove c’erano tutti i fascisti. Una vita da signore. Facevo il barbiere, e il trombettiere, vendetti la tenaglia e comperai uno scalpellino piccolo quanto uno stuzzicadenti e cominciai a fare anche l’orafo e il cesellatore. Ogni tanto gli inglesi venivano: «Signor Rizza vuole collaborare?» Nossignore! II signor Rizza era primo trombettiere dei giovani fascisti.

La cosa strana era che gli italiani che avevano accettato di collaborare, lavoravano come tanti cani, caricavano casse, spalavano letame, raccoglievano patate. Ogni tanto gli cadeva addosso una Vl tedesca. Io invece non facevo niente, suonavo, cesellavo, tagliavo i capelli e la sera gli inglesi mi invitavano nelle loro case. Mi misi in società anzi con uno di loro per fabbricare casse da morto, gli inglesi restavano a bocca aperta, mai viste a Oxford casse da morto belle come quelle siciliane. Poi finì la guerra…». Intanto che parla si accosta ad una specie di bidone dinnanzi all’uscio della bottega.

Il bidone ha un tetto di tavole e un foro dal quale improvvisamente sbuca una volpe meravigliosa che comincia a saltargli addosso. Contemporaneamente arriva un gigantesco cane lupo che si slancia sulla volpe e tutti e due cadono, si rialzano, fanno finta di azzannarsi, si rotolano giocando. Inspiegabilmente dal magazzino esce una pecora gialla che si lancia a testa bassa in mezzo al cane e alla volpe.

E Turi Rizza pure in mezzo ridendo: «Hai visto? Questi sono i miei grandi amici. Questa pecora l’ho allevata col biberon, si chiama Ninetta, è più intelligente di una donna. La volpe invece si chiama Nino, la trovai in mezzo alla campagna, era più piccola di un palmo, senza nemmeno il pelo, per dargli il latte ho dovuto usare un contagocce. Il cane si chiama Dog, è il mio vice, sorveglia la casa e il magazzino, mi tiene compagnia, la sera accompagna la pecora a fare una passeggiata e ogni tanto canta… Ho anche cinque cani, tre gatti bianchi e una ventina di serpenti. Li catturo nelle campagne.

Ora devono essere da qualche parte in mezzo ai mobili poiché io li tenevo in una boccia di vetro ma Dog, giocando, l’ha fatta cadere e i serpenti si sono nascosti da qualche parte. Per lo meno valgono cinquemila lire l’uno. Fabbrico cofanetti in pelle di serpente, d’estate vado a caccia lungo il fiume e riesco a prenderne anche di due metri. Certo i serpenti del Brasile sono un’altra cosa. più pregiati! Intanto perché non andiamo al teatro greco, ti faccio vedere una cosa fantastica…».

Andiamo al teatro greco. Il pomeriggio è come il cristallo. Tira un vento gelido, dalla cavea deserta si guardano tre orizzonti: l’immensa vallata dell’Anapo fino al mare di Siracusa la valle ancora più grande dominata dal monte Lauro, e la sterminata plaga di Ragusa fino alle fiamme dei pozzi petroliferi, e più oltre al balenio dei mare d’Africa. Nel silenzio perfetto solo la voce di quel vento. Turi Rizza si toglie gli occhiali neri: «Non ci vedo più. Sono stato cieco due anni e ogni tanto mi passa un’ombra sugli occhi. Quando finì la guerra però ero ancora giovane.

Che faccio mi dissi mio padre è morto, il paese è devastato, c’è miseria, fame, molti amici sono morti oramai. Me ne andai nel Venezuela a Caracas. Acquistai una “carrettiglia”, una specie di bancarella con le ruote, agghindata con nastri e luminarie, e cominciai a fare commercio. Vendevo polpette, uova sode, pesce fritto e “perro caliente”, cioè carne con il pepe. Il mio solo amico era un cane che si chiamava “Siete bravo”, cioè sette volte coraggioso, un lupo spropositato capace di sbranare un uomo se osava rubarmi una polpetta.

Brava gente i venezuelani, però mangiavano e non pagavano, ed allora mi arruolai come esploratore in una compagnia che costruiva una strada nella savana, lungo il fiume Orinoco dove abitano gli indios Raucan, quelli che hanno la faccia dipinta di rosso e portano un bastone infilato nel naso. Gli esploratori avanzavano in mezzo alla giungla, per controllare tutti i pericoli prima che arrivassero le macchine del cantiere e gli operai. Guadagnavo trentamila lire al giorno. C’erano serpenti di tutti i tipi, i più terribili erano gli “intrecavenato” che significa mangia intero poiché erano capaci di mangiare una pecora.

Più schifosi ancora però i “cascavella”, piccoli come una matita, rossi e neri, che scattavano anche a due metri di altezza e puntavano alla gola delle persone. Il tempo di contare fino a tre e l’uomo era morto. Infine c’erano i serpenti volanti, cosiddetti perché stavano sugli alberi e cadevano sulla testa per mordere l’orecchio o il naso dell’uomo. Uno, due, tre ed era morto anche lui. Finiva la giungla e cominciava la savana, una pianura che non finiva mai, poi improvvisamente diventava palude, la gente sprofondava, tu parlavi con un amico avanzando adagio, adagio, poi ti voltavi e non c’era più. Inghiottito.

C’erano zanzare come le pulci, più piccole, ogni morso che davano ti veniva un bubbone e la febbre a quaranta per tre giorni. Infine i coccodrilli, anzi i caimani, perché hanno il muso largo e sono di colore terra. Imparai a cacciare i coccodrilli, sembrava una cosa spaventosa e invece era una cosa facilissima, si nuota nella palude con gli occhi fuori dell’acqua e in mano un coltello che ha l’impugnatura al centro e due lame a freccia.

Appena il coccodrillo spalanca la bocca gli cacci la lama dentro e non si può liberare più, può nascondersi nel fango ma lo tiri a galla leggero, leggero, con un filo di seta. Per la verità io non ci tentai, io uccidevo solo i coccodrilli piccoli, di mezzo metro, li scorticavo, facevo seccare le pelli e le vendevo a Caracas. Guadagnai migliaia di bolivares, decine di migliaia, ogni bolivares duecento lire, fatti il conto…»

Dalla cima del teatro greco siamo andati sulla piccola pianura, il cocuzzolo della montagna e qui appare una cosa davvero fantastica: una strada bianchissima , tutta di grandi ciotoli, che corre nel fondo di un’immensa trincea. Turi Rizza ci cammina dentro: «L’hanno scoperta ora. Stavano scavando per un pozzo e hanno trovato questa strada di almeno tremila anni fa. Guarda i marciapiedi, i solchi delle ruote dei carri, gli spigoli dei palazzi. La gente è venuta qui a scavare di notte, hanno trovato cose meravigliose, anfore, bracciali, statuine, sottoterra qui c’è un’intera città ma i soldi degli archeologi sono finiti ed hanno smesso di scavare…»

Si è tolto il colbacco, i lunghi capelli grigi gli sbattono nel vento. Passeggia felice, gridando: «Pensa: su queste pietre ha camminato sicuramente anche Archimede. Guarda! Su quella scena c’è stato Sofocle e qui nell’odeon veniva Demostene a fare lezioni di oratoria. Quando io ero in un paese straniero, in Inghilterra col cerchio rosso di prigioniero sulle spalle, oppure nel Brasile, o a Caracas a vendere uova dure, guardavo la gente e pensavo: che cosa mi rappresentate voi? Chi siete? Io vengo da un paese dove Sofocle era scritturato per recitare le sue commedie e Demostene veniva a fare l’avvocato…»

Intanto ch’egli parlava, io pensavo alla straordinaria sorte del popolo siciliano. Essi vanno per il mondo a milioni, mai per spirito di conquista, ma per umiltà e fatica, e lo percorrono da cima a fondo, lo frugano instancabilmente in ogni fessura, nazione, città, paese, in mezzo ai grattacieli e in mezzo alle foreste. Infine se ne tornano a casa. Non c’è in tutta Europa un popolo più girovago, nemmeno gli inglesi, nemmeno gli ebrei. E sono i più poveri, i contadini, braccianti, falegnami, barbieri, calzolai, manovali, vanno dovunque, per dieci, quindici anni, imparano a parlare inglese, spagnolo, tedesco, vedono le più grandi città della terra.

Solo le persone per bene restano a casa, medici, avvocati, professori, gente erudita, i padroni apparenti della società, quelli che sanno… Turi Rizza raccontava: «Andai nel Brasile, tornai nella giungla, tornai a Caracas, la rivoluzione era finita ma un giorno mi cadde una tavola sulla testa, mi fece una bozza enorme. Sembrava una cosa da ridere, invece dopo tre giorni divenni cieco. Sei mesi così sempre nel buio.

Pensai che era l’ora di morire, non avevo nemmeno soldi, né moglie, né parenti, ma i miei amici di Palazzolo fecero una colletta “Coraggio Turi…” e mi portarono nell’unico ospedale di Maracaibo. Tumore al cervello, dissero, niente da fare, muore sotto i ferri, ma i miei amici palazzolesi firmarono un documento in cui si assumevano la responsabilità. Il chirurgo era negro, si chiamava Rodè, mi scoperchiò la scatola cranica, come il coperchio di una pentola, mi tolse un ematoma quanto un pugno e mi ricucì daccapo.

Poi i miei amici fecero un’altra colletta e con un aeroplano mi mandarono nell’ospedale neurologico di Roma. Duemilaottocento iniezioni alla testa, finché dopo un anno la vista cominciò lentamente a ritornare. Avevo i capelli grigi. Tornai a Palazzolo, ho questo magazzino, questi animali, fabbrico tutto, anche collane, anelli. Ogni anno aspetto che arrivi Carnevale per organizzare la più fantastica mascherata: fabbrico anche le maschere, guarda…».

Siamo tornati nel magazzino. Tira fuori maschere gigantesche, caricature di uomini politici, di animali. Tira fuori anche una cassa da morto, ma mi fa improvvisamente un discorso diverso: «Tu vorresti sapere come mai dopo quindici anni che avevo guadagnato venti e trenta mila lire al giorno ero senza nemmeno un soldo. Semplice! Fatti il conto: avevo guadagnato almeno ottanta, novanta milioni. Me li sparai tutti con le donne! Caro mio, mi può condannare solo chi non ha visto le donne del Venezuela, del Brasile. Qui in Italia non esistono, come te le posso descrivere? A quindici anni sono già una statua, nemmeno la rosa può avere la delicatezza della loro pelle, gli occhi come i fanali, parola d’onore, di notte fanno una specie di luce azzurra. E chi poteva resistere. I soldi parevano acqua, ma io pensavo: cosa c’è di più bello nella vita, poi dopo la morte non c’è niente, tutto finito, tutto buio, un poco di cenere sottoterra… Sai chi ha paura della morte? La gente che non si è goduta la vita, sempre lamenti, giaculatorie, alla fine restano come tanti baccalà. Io non ho paura, guarda questa cassa da morto, me la sono costruita con le mie mani, tutta di noce, con le borchie di metallo, d’estate mi ci corico dentro perché si sta fresco…».

Mi accompagna fino alla piazza: «Finisco di cesellare un anello e poi vado a farmi una briscola con gli amici al bar. Alle undici precise viene la pecora Ninetta, entra nel bar e mi fa alzare a testate perché è l’ora di ritirarci. Viene anche il cane, ma è più educato, aspetta davanti alla porta…».

La passeggiata è finita. È quasi tramonto, il cielo è alto, rosso e luminoso ma il paese sembra dolcemente calare dentro l’ombra della montagna. Paese bianco e grigio, con i colori della nostalgia, le grandi chiese, i palazzi antichi, le sue case pulite dei poveri. Cortese, dolce, amabile, gentile paese mio.

Ecco ancora la piazza della Matrice, sempre deserta, un volo di rondini quasi rimbalza da un campanile all’altro. In quel punto esatto della piazza avevamo costruito una porta di calcio con le due pietre e la partita era quasi finita. Era tramonto come ora. Paolo Padreterno era in porta ed io dovevo tirare il rigore. Ma la palla era di carta e lo spago logoro oramai, al calcio che detti, la palla si disfece. Corremmo a cercare un altro pezzo di spago, prima che si facesse buio… sono passati trent’anni!

© Riproduzione riservata